NAPOLI - C’è il cielo in quella stanza: e giorno e notte e notte giorno si sta da re a condividere se stesso, un pensiero unico e però rivedibile, il frammento di un’Idea che un perfezionista nell’anima sistema sotto la lente d’ingrandimento del proprio vissuto per analizzarlo in ogni sua particella. L’eremita dello scudetto ha scelto, e da un po’, di starsene rinchiuso nel suo mondo, d’evitare di divagare negli specchi d’acqua che, dall’alto della camera dell’albergo di Corso Vittorio Emanuele, potevano distrarlo, di smarrirsi per mezz’ora o un’ora o chissenefrega quanto in quei quaranta chilometri per arrivare a sistemare le diagonali di passaggio e le marcature preventive verso il futuro: Castel Volturno è il tratto esistenziale del presente, un’area indivisibile dal proprio corpo, e tanto vale starsene lì, lasciarsi attrezzare - in maniera spartana, essenziale - un monolocale, poi dormire e svegliarsi al Konami Training Center ma rimanendo immerso in quel Progetto che Luciano Spalletti ha lasciato germogliare ventinove anni fa, ad Empoli, e che stavolta, nel percorso ondulato d’una carriera da libero pensatore, sta fiorendo e come un filare pare collegare quelle epoche. «Sono partito da lì e sono grato all’Empoli. Sono stato avvantaggiato a lavorare in quel club, che offre a chiunque tanti spunti per fare calcio di un certo livello. Nei miei cinque anni da allenatore, altri due da giocatore, una ventina da tifoso che andava allo stadio a veder le partite, ho tratto beneficio di quella impostazione e me lo sono portato dietro, nelle mie successive esperienze. E sono stato fortunato, perché ho guidato calciatori forti, molto forti, che poi mi hanno dato la possibilità di allenare in società importanti come il Napoli».
L’habitat
Le pareti della coscienza l’hanno spinto ad assecondare la sua natura - un po’ fabbro e un po’ contadino, un po’ enologo e parecchio artista - e il Cicerone ch’è in Spalletti, il padrone del suo calcio trasgressivo, assai hard e semmai persino sexy, è emerso prepotentemente ed ha deciso di accompagnarlo in un tour favolistico, nell’austerità di quel microcosmo trasformato in una «casa, dolce casa» nella quale c’è tutto ciò che serve e si può comunque entrare, persino quasi senza bussare. In questa esemplare stagione, un’annata magica, la botte per contenere e sviluppare ulteriormente il suo calcio, è adagiata in un bunker antiatomico, in quell’auto-isolamento che tutela dagli agenti esterni e favorisce le riflessioni più profonde, uno spazio totalizzante ed egualmente emozionale, tra schermi giganteschi per studiare le contromosse dei nemici e un televisore per restare connesso con l’universo, assorbendolo con appagante moderazione.
La mistica
E sembra di ritrovarci qualcosa di mistico in questa scelta di vita che può apparire anacronistica, singolare e pure assai anticonformista, un’immersione integrale per riempire le proprie giornate di sé, di quell’amabile ossessione che si chiama calcio, l’espressione lieve del palleggio, il solfeggio d’uno spartito che non arrivi oltre quei tramezzi eretti a mo’ di fortino e pronti invece ad accogliere un murales per la Storia (...come se non ci fosse più niente, più niente al mondo; suona un’armonica...).