Napoli, Reja racconta De Laurentiis: “Un amabile provocatore"

Il racconto del tecnico che ha resistito più di tutti al fianco del presidente azzurro
Antonio Giordano
5 min
Se 188 panchine non raccontano un tempo, 1.507 giorni forse aiutano a spiegarlo e a svelarlo un po’ meglio nella sua ampiezza, nella sua profondità. Quando Edy Reja mise piede a Napoli, per la prima volta, gennaio 2005, faceva freddo, però c’erano 30.000 spettatori a scaldarlo e un futuro di cui riappropriarsi: e mentre se ne andava, marzo 2009, l’amarezza svaniva ripensando alla felicità. In 50 mesi, si costruisce un’epoca - bella e indimenticabile - in cui s’incastrano pure tracce di una malinconia che s’adagia tra i vicoli della memoria, addobbati d’episodi, d’aneddoti, di curiosità. Il più longevo tra gli allenatori dell’era De Laurentiis salutò senza sbattere la porta, anzi accostandola con quel garbo che gli è sempre appartenuto, e nel congedo - la tristezza che archivia un ciclo - sorrise persino pensando alle inevitabili scaramucce di quel lustro abbagliante in cui il Napoli, il suo e quello di Pier Paolo Marino, dalla penombra della C si issò sino al luccicante palcoscenico del «Da Luz». Però ci volle pazienza, self-control, perché le turbolenze non mancarono, scontri dialettici anche ruvidi come un post-partita di Napoli-Lazio in cui le parole riempirono l’aria, prima che Reja pensasse di andare via: rientrò a Castel Volturno, nell’attico dell’albergo che l’ospitava, la signora Livia cominciò a preparare le valigie, tolse pure i quadri dalle pareti, prima che chiamasse De Laurentiis per bloccarlo. «Ma dove vai?». Ma quello era un altro calcio e un altro De Laurentiis. 

Le cinque stagioni di Reja con Adl come si possono racchiudere?
«Con un termine soltanto: indimenticabili. Dal punto di vista calcistico, fu un trionfo: chiamarsi Napoli non bastava per garantirsi il successo e infatti, alla fine del primo semestre, la sconfitta nella finale per la B con l’Avellino creò una delusione enorme in chiunque, in me più di ogni altro. Fu un dolore. Al mattino, dopo una notte insonne, ero rassegnato, pensai di lasciare e fu lui, con Marino, ad addolcire l’atmosfera. Ricominciammo assieme». 

Però c’è stato modo di dover fronteggiare situazioni complicate.
«Ma in De Laurentiis i pregi superarono gli umani difetti. So bene che non è facile gestirlo, se così si può dire: mi aiutò l’esperienza, forse pure il fatto di essere più o meno coetanei. Ma non ho mai dovuto subire ingerenze, mai che mi abbia chiesto la formazione: semmai, dopo, si divertiva a provocarmi, perché hai fatto giocare Tizio e non Caio». 

Potevate separarvi con dodici mesi di anticipo, rispetto alla chiusura del suo mandato.
«Volle che rimanessi, alla fine di una serata movimentata. Aurelio sa fare i passi indietro quando si rende conto di essere andato oltre. E ascolta».

La esonerò su suo suggerimento...?
«
La situazione si era fatta complicata, capii che per dare una sterzata alla squadra sarebbe stato necessario cambiare. Perdemmo con la Lazio, lo chiamai, gli dissi che sarebbe stato giusto per me dimettermi. Aveva bisogno di un sostituto, c’era Donadoni, mi permisi di indirizzarlo: riparti, così arrivi pronto con lui alla prossima stagione. Volle una cortesia: aspetta che gliene parli. Se mi dice sì, ti lascio andare. Mi ha spesso invitato a tornare, ti do un ufficio qua, chiacchieriamo un po’. Ma io ho dato, vado per i 78».

Cosa immagina, adesso?
«Lo scudetto è un risultato straordinario, l’apoteosi del Progetto. Il Napoli ci è arrivato attraverso un percorso in continua evoluzione, l’ha sfiorato un paio di volte, ha sempre ottenuto piazzamenti importanti, spesso la Champions, altre volte l’Europa League. Spalletti è stato geniale, il suo calcio ha entusiasmato, è diventato punto di riferimento internazionale».

Ma in tre mesi si entrerà in una fase nuova. 
«Non entro nelle dinamiche, non le conosco e non mi permetterei mai di farlo. Ma so che il Napoli ha una squadra di valore. Ci sono calciatori che rappresentano la continuità, stanno lì da un bel po’, sono cresciuti e si sono affermati. E ci sono giovani, che garantiscono il futuro».


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