È proprio vero che niente è impossibile, persino lasciare che la gioia, la gloria e l’orgoglio per uno scudetto atteso da 33 anni svanisca non nei mesi o nei 135 giorni che separano la notte di Udine da quella di Genova, ma in 360’. E il sospetto che quattro partite siano state sufficienti per soffocare il sentimento e sgretolare quel capolavoro che appartiene a chiunque - Spalletti e Giuntoli inclusi, ci mancherebbe - resta a galleggiare nell’aria. Ecco le cinque spine sul fianco di Garcia.
1) Il Napoli gli è già sfuggito di mano
Per centoquindici minuti di campionato, dal 46’ della sconfitta con la Lazio al Maradona prima della sosta al 70’ (o giù di lì) del pareggio di sabato con il Genoa a Marassi, il Napoli ha smesso di giocare, ha scoperto di non avere più idee, ha portato palla o anche no, ha fatto la partita ma per modo di dire perché in realtà ha subito le condizioni altrui. In centoquindici minuti, Garcia ha cercato soluzioni ardite, ha abbandonato il tridente, ha provato altro (il 4-2-3-1 innanzitutto); ha inserito sabato sera Cajuste in un centrocampo a due, a lui più idoneo; s’è affidato a Raspadori, o da esterno o da sottopunta; ha inseguito qualcosa, ma senza che fosse mai ben chiaro cosa. Perché, brutalmente, il Napoli gli è immediatamente sfuggito di mano: ha perso con la Lazio e ci è andato vicino con il Genoa, che dal Ferraris ha comunque fatto uscire una squadra ammaccata tatticamente, svuotata di quelle certezze che gli sono appartenute - e in che modo - nel biennio di Luciano Spalletti; depotenziata in chiave offensiva (con gli stessi uomini di un anno fa) e pure disorientata difensivamente (e mica per «colpa» di Kim, ora al Bayern Monaco, o di Juan Jesus che lo sta sostitutendo, o di Natan che è arrivato per raccoglierne l’eredità e che non ha ancora collezionato neanche un minuto).