C’ era una volta l’integralismo tattico: 4-3-3 e così sia. A un certo punto un dogma più che una soluzione (tipo un anno fa), nel nome di un passato che già sfumava verso il tramonto dei ricordi. Poi, Antonio Conte: è arrivato lui e il Napoli s’è messo a pensare come lui. Stesso piglio, stesso sguardo, stesso carattere. Un’identità precisa ma anche la capacità di cambiare abito, di trasformarsi a seconda delle occasioni, serate di gala o giornate di fatica: il Napoli di Conte gioca a cinque e anche a quattro, costruisce con i tre difensori (più due) o abbassa il regista tra i centrali; sposta McTominay al fianco di Lukaku e fa 4-2-2-2 oppure lo abbassa in mediana e fa 4-3-3 o 4-2-3-1 in corsa. In fase offensiva, certo, perché poi quando c’è da difendere Politano può fare l’esterno destro a tutta fascia o restare più alto. E così via: il Napoli è un laboratorio di sistemi recitati sistematicamente nel nome di quella solidità che, nonostante numeri realizzativi non proprio esaltanti, ha permesso alla squadra di conquistare la vetta della classifica e poi difenderla per sette giornate consecutive. Passando attraverso la Juve, il Milan, l’Inter e l’Atalanta: tre scontri diretti in trasferta - due pareggi e una vittoria con i rossoneri - e quello con la Dea al Maradona, unica sconfitta del ciclo. A proposito: quattro partite fondamentali giocate più o meno con la stessa formazione. Un solo cambio dalla Juve alle altre, Gilmour per Lobotka, obbligato dall’infortunio di Lobo. E poi, formazione identica. O quasi. Basta leggere i minuti collezionati da tutti i giocatori della rosa in dodici giornate: esiste un assetto di base, undici uomini impiegati con maggiore frequenza. Tre sempre presenti e mai sostituiti. Senza coppe va così. A volte anche con.
Napoli, i pilastri della squadra
Tre signori in copertina come tre pilastri: Di Lorenzo, Rrahmani e Anguissa le hanno giocate tutte in campionato, e sempre dal primo all’ultimo minuto: 1.080’ esclusi recuperi, certo. Tre più uno: anche Buongiorno, dopo aver saltato la prima a Verona con l’Hellas per infortunio, è entrato e non è mai più uscito. Mai sostituito, titolare con licenza di aprire e chiudere (11 presenze, 990’). Tre più due, se vogliamo: McTominay è un altro di quelli che, una volta messo piede sul pianeta azzurro, un po’ in ritardo per questioni di mercato, le ha collezionate in serie dalla Juventus in poi (otto partite dall’inizio dalla Juve all’Inter, 736’ includendo l’esordio nel finale a Cagliari). Anche Lukaku, dal Cagliari in poi, le ha giocate tutte dal primo minuto: 9 in totale, più l’esordio nella ripresa con il Parma (723’).
Napoli, Politano e Kvaratskhelia
Oltre 900 minuti per Politano, 901 per la precisione: 11 volte titolare e una sola volta dall’inizio in panchina contro il Lecce al Maradona, esattamente come Kvara (che però conta 858’ per le sostituzioni). Matteo, però, rispetto al collega riveste una funziona tattica molto delicata: dai suoi movimenti e dalla sua posizione cambia il modo di difendere.
Napoli, gli altri giocatori
Fa parte dell’ossatura, cioè degli uomini maggiormente impiegati anche Olivera (843’). E se gli infortuni non li avessero limitati, è praticamente scontato che Meret e Lobotka avrebbero fatto en plein di presenze. Tra gli uomini più impiegati pur partendo dalla panchina c’è Simeone (204’): 10 presenze come Neres, fino a un certo punto lo spacca-partite per eccellenza con appena 181’ in carnet. Ha più minuti ma meno presenze Raspadori (241’, 6 gare), mentre da un mese a questa parte Conte ha cominciato a schierare con maggiore continuità Ngonge: titolare con il Lecce, una mezzora con l’Atalanta e il finale con l’Inter. Ne apprezza anche le capacità difensive.