Il tifoso e il divieto di sognare

Il tifoso e il divieto di sognare© Bartoletti
Giancarlo Dotto
4 min

Immaginare di avere un futuro è l’ubriacatura dei poveri. Un modo onesto di credersi quello che non si è. La storia del romanista è un’antologia di liriche sbronze. Quasi mai autorizzate. Erano, infatti, deliri più che altro. Bastava poco. Percepirsi competitivi con Juventus, Milan e Inter solo perché dopo due giornate stavi lassù a pari punti con loro, salvo poi ritrovarsi in fretta a masticare il pane duro nella stessa mensa con Oronzo Pugliese e Francesco Scaratti. Modestie assolute si accoppiavano con nomi mitologici, quasi sempre latino-americani, un ibrido che franava ogni volta tra piedi ferrigni e dolci vite.

Poi arrivarono geni episodici, qualcuno in coppia, Dino Viola e Liedholm. Arrivò un meraviglioso, romanissimo campione di tigna, Franco Sensi. La Roma si ritrovò grande, senza che nessuno avesse promesso che lo sarebbe diventata. I tifosi si ubriacarono questa volta di cose e magie che accadevano sotto i loro stropicciati occhi, ma senza osare d’immaginare che tutto ciò avrebbe avuto un futuro. Poi si materializzò l’altro genio episodico, Francesco Totti, e i tifosi romanisti, l’avrete capito sognatori come pochi, ne fecero una divinità, immaginando che lui sì sarebbe stato eterno. Poi arrivarono gli americani. Nove anni fa. E con loro iniziò l’era del “futuro”. Con loro la Roma è sempre quella del domani. Tutto inesorabilmente declinato a quello che sarà, la grandezza che verrà, i titoli che si vinceranno, i giocatori top che resteranno a vita. Da nove anni in qua i tifosi romanisti galleggiano schizofrenici tra la Roma che sarà e la Roma che è. Sono diventati davvero “poveri” da quando sistematicamente condannati a immaginare un futuro, mentre sotto i loro occhi la realtà, il presente, dicono altro, che i titoli non si vincono, che la Juve resta l’altro pianeta, e che i migliori, tutti, prima o poi se ne vanno, spesso, a rinforzare le presunte rivali.

Come i paesi “poveri”, la Roma produce materie prime per i paesi ricchi. Dentro un Olimpico sempre più vuoto e freddo. Perché, chi ha voglia di frequentare uno stadio dove la tua squadra è regolarmente spopolata di nomi e di storie?

Nove anni di promesse non mantenute hanno trasformato il tifoso giallorosso, quello al mondo che più applica la preghiera al tifo, il sognatore per vocazione, nel più disincantato laico delle preghiere non esaudite. Il tifoso romanista di oggi non auspica più il futuro, lo teme. Sa che gli è vietato innamorarsi, la più grande disdetta per uno come lui.

Vede nascere storie eccitanti come quella di Zaniolo ma sa di non poterne goderne. Ha smesso di sperare. Dispera. Non si chiede se sarà il nuovo Totti. Si chiede: quando lo venderanno? Il tifoso romanista vive nella mancanza, nel lutto da premonizione. E’ già nel passato, non riuscendo più a bersi la favola del futuro.

I militanti schierati anima e corpo con questa dirigenza percuotono di brutto la ghirba di chi protesta o si lamenta: «Ma come, straccioni che non siete altro, gli americani hanno dato continuità di vertice alla Roma…». Non avendo quel minimo di stoffa per capire che il tifoso inibito alla possibilità stessa di amare (alla lettera, l’innesco romanzesco che riempie vite altrimenti prive di senso) è già questa la sconfitta assoluta, prima di ogni altro secondo o terzo strapuntino stiracchiati in campionati mai così scadenti.


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