L'avevo già vista, quella strana espressione nei suoi occhi. Avevo già visto quello sguardo così fiero, vivace, beffardo. Soltanto uscendo dal salone d’onore del Coni mi sono ricordato dove e quando. All’Olimpico, quindici anni prima, Roma-Juve 4-0. Uno sguardo identico aveva accompagnato un gesto indimenticabile e anche sgradevole, ma molto romano: le quattro dita allungate, il movimento della mano che stava a significare: “Quattro, e a casa!”
“Quattro, e a casa” l’ha ripetuto ieri, Francesco Totti. Ma quattro, stavolta, non erano i gol segnati, bensì i dirigenti altrettanto segnati di una Roma che lui, con forza, decisione, l’ironia di sempre e le palle quadrate ha illustrato e scorticato viva. L’amore che va oltre.
“Non voglio prendermela con questo o con quello, non mi interessa… Auguro a Pallotta le migliori fortune perché io continuerò ad amare la Roma”, ha ripetuto. Solo due persone ha voluto salvare: Claudio Ranieri, che proprio lui aveva scelto per sostituire Di Francesco (“un grande uomo”), e l’amministratore delegato Guido Fienga, che però ha descritto come un dirigente pieno di ottime intenzioni (“lui solo mi voleva direttore tecnico”, aggiungo che aveva chiesto a De Rossi di fargli da vice) ma disattivato sulla parte tecnica da Boston e Londra.
Pallotta e Baldini, sempre presenti direttamente o indirettamente, tanto nelle domande dei giornalisti quanto nelle risposte di Francesco (“in due anni non li ho mai sentiti; anzi, una volta sì, a Londra”), sono quelli che lo consideravano un fastidio, un peso e l’hanno costretto a “morire”, almeno temporaneamente; Baldissoni è stato invece liquidato con due parole (“è un dirigente”) e tanto sarcasmo (rivolto alla platea: “perché ridete?”). Inquietante ciò che ha detto su Trigoria (già ampiamente sputtanata a suo tempo da Rudi Garcia), definita una sorta di rifugio per anime sporche (“e c’erano anche dirigenti che si auguravano di perdere”), il centro di un taglia e cuci che toccava l’assente di turno, danneggiando inevitabilmente la Roma. I giocatori non sono stati risparmiati (“gente che dopo una sconfitta ho visto ridere”). E sul nuovo stadio ha posato la prima pietra. Tombale.
Da ieri, senza Totti, la Roma non è più la Roma. E’ un’altra cosa, è una società che davanti a sé ha due strade: la ristrutturazione sulla base di principi, valori e uomini finalmente in grado di decidere autonomamente, oppure la cessione, l’uscita di scena, come inducono a pensare i recenti sfracelli e gli interventi di Franco Baldini, un repulisti d’autore. La terza via, ovvero la conservazione di tutti i difetti elencati in modo molto chiaro da Totti, non è più praticabile. Perché saranno proprio i tifosi, oltre a giornali come il nostro, a esercitare con un’attenzione supplementare la funzione di controllori. Francesco Totti, il più grande giocatore della storia della Roma, e tra i più grandi del calcio italiano, si è sacrificato sull’altare della chiarezza e del senso di responsabilità. Facendoci sentire piccoli davanti a un ex ragazzo che d’improvviso, smettendo smorfi e e battute, se ne è uscito con un lapidario “ho mandato una mail alle 12.41 del 17 giugno per dire che mi dimettevo; oggi potevo anche morire, forse sarebbe stato meglio”. Troppo, forse, per i disinvolti baciamaglie. Grazie a lui abbiamo respirato di nuovo, e per oltre un’ora, l’aria pulita di un calcio fatto di passione, di fede, di trasparenza, di fedeltà. Di bandiere. “I presidenti passano, i giocatori passano, le bandiere, quelle, non passano mai”.
