Roma, finale di partita con una sola vittima

Roma, finale di partita con una sola vittima
Giancarlo Dotto
5 min

C’è stato un momento in cui James Pallotta voleva liberarsi della Roma. Oggi è la Roma che vuole liberarsi di James Pallotta. Tra i due capitoli, l’irruzione ammorbante del coronavirus che ha deragliato il mondo. Il lieto fine? Tutto da scrivere, impossibile da pronosticare. Non è mai stata una storia d’amore tra l’Americano con la faccia da lupo e i Lupi con la voglia dell’americano. Anche quando, da Boston, le dichiarazioni d’amore, non richieste, impollinavano la città. Di sicuro, sono volati più stracci che baci. Di sicuro, essere condannati a convivere, per due che si sono scambiati per nove anni promesse e preghiere non esaudite, è la premessa certa del disastro. Necessario recidere un cordone diventato malsano.

In tutto questo tempo sono volati più stracci che baci, più atti di guerra che di pace, inclusi le ultime proteste e striscioni ieri davanti la sede della Roma, via Tolstoi, a proposito di guerra (tanta) e pace (molto poca). Da troppo tempo James Pallotta è diventato l’arto fantasma della Roma. Fa male, ma è invisibile. Oggi lo descrivono come un uomo stremato, solo e molto incazzato. Che non si tuffa più in nessuna fontana del pianeta. Con la frustrazione addosso di chi ha perso nella casa crollata il biglietto vincente della lotteria, 790 milioni di euro, e non si dà pace per questo. Alle porte, esercizi di bilancio da panico.

Nel frattempo minacciano di abbandonarlo i soci finanziatori. Ad abbandonarlo è soprattutto l’idea della sua invincibilità di uomo che non ha mai sbagliato una mossa da quando “gioca” con la finanza. Una macchia inaccettabile nella sua biografia. Oggi la Roma è ostaggio del suo orgoglio ferito. Come lui è ostaggio della Roma non meno ferita. Due nemici che possono solo incattivirsi.

Se Dan Friedkin esiste ancora, Pallotta deve favorire il suo accesso a Trigoria. Basterebbe un argomento, la sorte stellata dell’uno, il texano, e la iella non meno stellata dell’altro, il bostoniano. Che sta per chiudere l’affare calcistico del secolo e si ritrova in faccia la peste più indecifrabile del millennio. Risultato del mancato closing, un disvalore che supera i 200 milioni. Pallotta non ci sta. Rifiuta l'ultima offerta di colui che sembra essere più Paperoga che Paperon de’ Paperoni. Continua cercare nelle macerie il biglietto della lotteria.

Alle porte, intanto, una recessione drammatica e la situazione non meno drammatica di un club con debiti importanti, che paga stipendi più alti dei ricavi e si ritroverà da qui a breve, dopo la scelta dell’instant team, di dover rifare quasi da capo una squadra fondata sui prestiti e condannata alla cessione di uno e forse due dei suoi tre pezzi da vetrina (Ünder, Pellegrini e Zaniolo). Auguri. Cedere il passo a Friedkin è l’unica strada. Un uomo che, con i suoi 4 miliardi di dollari di patrimonio personale, può riportare la Roma a quello che oggi è più una necessità che un destino: vincere sul campo. Vincere per generare profitti e lo stadio come moltiplicatore dei profitti stessi.

Pallotta deve lasciare “per il bene della Roma”, se questa espressione ha ancora un senso, e probabilmente anche per il suo. Con tutto l’onore delle armi. Non è vero che non ha vinto nulla. La sua Roma è tornata stabilmente grande dopo aver sfi orato la bancarotta. Per due volte, gli 85 punti di Garcia e gli 87 di Spalletti, non ha vinto scudetti che dieci volte su dieci avrebbe vinto in qualunque epoca o continente, non ci fosse stata una Juve disumana (prima o poi bisognerà restituire il giusto merito all’”impresa” romanista di Walter Sabatini). Ha mostrato spesso un calcio di cui vantarsi, ha fatto vedere giocatori grandiosi, prima di doverli svanire nell’inferno delle plusvalenze. È diventata una media company tra le più importanti al mondo. Tutto questo, oggi, non basta più. Pallotta non deve arrendersi al loop luciferino del “rosicamento”. La sua non sarà una sconfitta. Il “tutto da perdere” oggi ha una sola vittima possibile: l’As Roma.


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