Roma, Mourinho: "Sono vittima della mia ossessione per la vittoria"

Il tecnico: "Non vincere per me era un fallimento, ma non dovrebbe essere così"
Roma, Mourinho: "Sono vittima della mia ossessione per la vittoria"© ANSA
Jacopo Aliprandi
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ROMA - José Mourinho e la vittoria, una vera e propria dipendenza. Un po' come la vivono tutti i grandi allenatori e giocatori, inevitabilmente affamati di gloria e di potere. Diventare il numero uno in circolazione, vincere ogni trofeo, superare sfide impossibili. L'ambizione però a volte può trasformarsi in una dipendenza e lo stesso José Mourinho nel libro di Joao Gabriel "Manténganse locos y hambrientos" ne parla come mai prima: "Sono stato un po' vittima di me stesso; se potessi, sarebbe una delle cose che non ripeterei. Perché ho vinto, vinto e vinto... E sono entrato in una dinamica in cui non vincere sembrava la fine del mondo. Io stesso, per la mia personalità, ho incoraggiato un po' questo pensiero. Il lavoro è vincere, vincere, vincere. Ma poi quando sono arrivato in situazioni in cui era molto difficile vincere, non ho accettato la sconfitta come altri allenatori ma reputavo il mio lavoro sempre insufficiente. Non vincere per me era un fallimento, ma non dovrebbe essere così". 

La routine della vittoria ha fatto diventare Mourinho ostaggio del suo successo. L'ossessione della vittoria inevitabilmente si trasmette anche ai giocatori che allena, con cui però è sempre stato molto chiaro e sincero: "Ho sempre detto ai giocatori: in me troverete un uomo onesto. Un uomo che ti dice la verità, che ti dice le cose che vuoi e  non vuoi sentire. Un giorno potranno dire dire di me che sono un pessimo allenatore, che sono stato un bastardo, ma nessuno potrà dire che non fossi onesto." La critica o meglio, il "consiglio" come dice Mou, al giocatore fa parte del lavoro quotidiano. Ed è altrettanto importante che il giocatore dia il massimo per la squadra senza pensare esclusivamente ai propri interessi: "Ho problemi con i giocatori egocentrici che antepongono i loro obiettivi personali a quelli collettivi. Perché questo rende difficile il lavoro . Giocatori famosi o sconosciuti sono la stessa cosa, purché lavorino per la squadra". 

Il libro di Joao Gabriel è incentrato sulla comunicazione, i nuovi modi di parlare sia ai giocatori, sia ai collaboratori ma anche agli addetti ai lavori. La comunicazione nel mondo del calcio sta cambiando di anno in anno, una mutazione che coinvolge anche gli allenatori e i giocatori: "Per me le conferenze stampa sono un lavoro, e opto sempre per due o tre idee chiave che sono ciò che io chiamo "ancore di salvezza", a cui ti aggrappi per trasmettere ciò che pensi sia importante in quel momento e per quella partita. Ma ci sono sempre domande che non ti aspetti, alcune del tutto sorprendenti, ed è l'intelligenza emotiva che ti costringe a reagire rapidamente, ad avere una risposta".  Sui nuovi media: "In passato la conferenza stampa era il momento della comunicazione di un allenatore. L'unico intermediario era il giornalista e questo ci dava la garanzia che il nostro messaggio sarebbe arrivato al destinatario senza travisamenti. Oggi in alcuni casi non è così. Sto parlando in conferenza, ho inviato un certo messaggio a un determinato destinatario e le reazioni a quanto ho appena detto sono già partite sui social, sui siti e così via... La domanda che sorge spontanea è: quale messaggio raggiungerà il destinatario? Sarà il mio messaggio o le reazioni distorte di quello che ho detto? E questo fa la differenza nella nuova comunicazione". 


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