Quando alle 15.09 del 4 maggio scorso la Roma annuncia con un tweet l’ingaggio di José Mourinho, chi scrive assiste al prodigio di una notizia che incendia una tavolata tra vecchi amici, tifosi di molte squadre diverse, e pronti a dividersi tra adoratori e detrattori del più pirotecnico allenatore del mondo. Uno dei commensali più accalorati nel criticare la scelta dei Friedkin promette che, se lo Special tra un anno esatto sarà ancora sulla panchina giallorossa, lui mangerà un topo. Nel tempo che passa si smarrisce il video che ritrae la singolare scommessa, ma non la sua memoria. Che torna oggi attuale, alla vigilia di una partita che vede la Roma di Mourinho incarnare le residue passioni dell’Italia per il calcio.
In un anno si è acceso di fiamma, per poi spegnersi del tutto, il sogno di un rilancio internazionale del marchio azzurro. Lo slalom tra i debiti e gli azzardi di mercato non ha impedito ai club italiani di toccare con mano quanto grande, e per ora insormontabile, sia il divario, di tecnica, di finanza e di cultura che li divide dalle capitali europee del pallone. Arroccati nelle mura del campanile, ci consoliamo con il palio meneghino che riaccende il trasporto per uno scudetto che torna conteso e, a tratti, emozionante, a patto di non switchare con il telecomando verso una partita della Premier e ricordarci, qualora lo avessimo dimenticato, che lontano da qui il calcio è un altro sport. E un altro ritmo vitale.
Da questa palude delle passioni tristi stasera ci porta fuori la Roma, caricandosi simbolicamente sulle spalle le attese tradite di tutti i tifosi italiani. Piaccia o no, l’Italia è, per una notte, giallorossa. Perché, al netto di ogni rivalità, in ciascun cittadino del nostro Paese che ama il calcio c’è lo spicchio di un sentimento patriottico orfano di leadership. In nome e per conto di tutti, Mourinho tenta un’impresa che sarebbe ingeneroso definire ordinaria. Perché la Conference non è una Coppa di serie B, avendo ospitato non poche squadre vincitrici dei rispettivi campionati e altre discese dall’Europa League. Perché lo spareggio per la finale arriva dopo un percorso lungo tredici partite, che non ha risparmiato alla Roma una prequalificazione contro il Trabzonspor, vincitore del campionato turco. E perché da ormai dodici anni, la “vacatio” più lunga della storia calcistica nazionale, un club italiano non sale sul tetto d’Europa. Non è del tutto casuale che a riprovarci sia lo stesso tecnico che il 22 maggio del 2010 alzò al cielo del Santiago Bernabeu l’ultima Coppa dell’Inter.
Lo Special non passerà probabilmente alla storia come il più grande tattico del calcio moderno. Ma la sua capacità di plasmare una squadra come una poltiglia di creta, dandole giorno dopo giorno una forma sempre più netta, è una virtù che ne fa un personaggio unico tra i signori della panchina. Questo miracolo si è ripetuto nella capitale in mezzo a una transizione societaria che non ha ancora consentito ai Friedkin di risultare decisivi, in uno spogliatoio depresso da anni di languore, in un campionato reso più difficile dal rafforzamento delle provinciali e, da ultimo, in un ambiente che pure ha fatto fatica a trattenere la delusione di fronte ai primi ostacoli e ha trasmesso al tecnico e alla squadra scariche di insofferenza e di stress.
Mourinho ha strapazzato il suo pupazzo senza pietà come un Geppetto implacabile, fino a quando non ne ha fatto un Pinocchio ubbidiente e tenace, umile e coraggioso. Alla fine dalla creta è spuntato il carattere con il quale la Roma ha fin qui saltato il fossato che conduce alla porta del Palazzo e nel quale galleggiano le carcasse di sei big italiane caduteci dentro. La semifinale di questa sera vale quanto l’ultima cottura: se il burattino giallorosso sarà duro al punto giusto, vorrà dire che l’alchemico collante di Mou avrà cementato la sua creta. E allora forse non ce ne sarà per nessuno. A un cuoco così abile resterà la fiamma per arrostire a puntino il topo, da offrire in pasto, con sorriso beffardo, ai suoi detrattori.