Mourinho, i Friedkin e la religione del tifo

Mourinho, i Friedkin e la religione del tifo© LAPRESSE
Giancarlo Dotto
5 min

Sacrosanto dirlo prima perché non sia troppo facile o difficile dirlo dopo. Comunque vada a Tirana (cambia tutto nel calcio, ma il pallone resta maledettamente e qualche volta iniquamente rotondo), la ditta Friedkin & Mourinho associati l’impresa a Roma l’ha già confezionata e siglata. Non sappiamo se i soggetti in questione avessero già studiato tutto prima di salire in giostra. Fosse così, i tifosi romanisti avrebbero tutto il diritto di esultare ancora di più, ammesso sia possibile, con tutta la devozione genuflessa che si riserva alla Madonna o al Genio. Può darsi, invece, che l’abbiano capito strada facendo o che non l’abbiano capito affatto, che non l’abbiano cioè razionalizzato a tavolino, resta il fatto che è successo. Una sintesi, per l’appunto mirabolante, tra rivoluzione e reazione.
Friedkin & Mou associati hanno riportato la religione del tifo a Roma come non accadeva dagli anni 60. Molto prima che un razzo, da curva a curva, sfondasse la faccia dello sventurato Paparelli. Allo stesso tempo, questo ritorno al passato, questa restaurazione dell’inconfondibile e voluttuoso amore da stadio si combina con visioni e strategie lungimiranti, per quanto gettate nel futuro.
Avendo speso fiumi di parole sullo sciamano di Setubal, concentriamoci un poco sui due texani, padre e figlio, padre soprattutto. Il loro primo, sensazionale colpo di genio: la scelta del silenzio. Radicale. Come quella dei monaci certosini. Che sono quanto di più lontano dal mondo, eppure nel cuore del mondo. Distanti da tutto e da tutti per essere uniti a tutto e a tutti nel comune obiettivo che, nel caso dei monaci è Dio, in quello dei Friedkin il successo dell’impresa. Scelta decisamente più audace e ammirevole quella degli americani che, nel mondano, sono immersi fino al collo, tra Hollywood, Cannes e i rituali vari del glamour.
La scelta del silenzio in una città come Roma, invasa dalla chiacchiera, è iconoclastia allo stato puro. Un gesto di rottura totale. Atteggiandosi a monaci certosini, i texani lavorano nell’ombra, costruiscono il loro tempio laico al riparo del rumore. Certo, i risultati aiutano. Ma va detto che un certo rispetto per i Friedkin non è mai mancato, nemmeno nei momenti peggiori. Se l’altro tace, se l’interlocutore si sottrae, la tua parola o parolaccia sfinisce prima o poi nel deserto. Jim Pallotta, molto intelligente, ma passionale e stizzoso come pochi, non l’ha mai capito.
L’altro colpo geniale: José Mourinho. Quasi impossibile solo pensarlo. Uno che ha sempre levato calici lussuosi su tavole molto imbandite, sola eccezione il Porto ai suoi esordi. “Ave Mou, un cavolo! Ha accettato la Roma solo perché è consapevole del suo inevitabile declino…”. José Mourinho come Gloria Swanson, lo stesso malinconico boulevard dell’ultima sfilata. Accusato dai suoi detrattori d’essere l’ego della bilancia dentro una traiettoria già modesta che tanto valeva precipitare. José Mourinho come Nerone. La Roma brucia. A quanto pare non era questo il racconto.
Il capolavoro, in tutti i sensi fatto carne, che vediamo ogni volta di questi tempi all’Olimpico, non ci sarebbe mai stato senza José, anche deliberando l’accesso allo stadio gratuito. Non è il quanto, ma il come. Non quanto pieno di corpi lo stadio, ma cosa ribolle in quei corpi. Se i Friedkin tacciono, Mou parla. E come parla. Sempre ispirato. Mostrandosi nella sua veste migliore, la stoffa del capo tribù, parlando in una lingua non sua di “empatia” e di “famiglia”, sempre convincente, senza mai dare l’aria di recitare aria fritta, l’uomo di Setubal mette a segno il capolavoro assoluto della sua carriera. Niente a che fare con i trofei (Tirana? L’eventuale ciliegiona). Riportare il calcio di oggi alla festa e all’innocenza degli anni ’60. Quando non era stato ancora sequestrato dal super ego del tifo organizzato, all’inizio propizio poi dannato, le famiglie sfrattate da curve e stadi egemonizzati dalla religione ultrà.
Il profeta José, con tanto di canizie che sa di papalina, ha riacceso l’anacronismo umanistico della fede in un mondo che va a passo spedito verso il post-umanesimo. Esempio, tra l’altro, irresistibilmente contagioso. Ogni volta che l’Olimpico va in onda si accendono focolai ovunque, anche dalle macerie della pandemia, a Salerno, Genova, Torino, Milano, Napoli, Udine, Empoli. Ovunque. Dalla Roma di Mourinho è ripartito qualcosa di enorme. Un fuoco fatuo? Forse. Una suggestione. Chissà? Ma, intanto, c’è, godiamocela.
Le premesse perché abbia un futuro, almeno a Roma, ci sono. Lo dimostrano i nostri cellulari di questi tempi invasi di foto da parte di padri giallorossi infoiati di brutto, trentenni e quarantenni, delle loro creature in culla o all’asilo addobbati di giallorosso dalla testa ai piedi. Qualcuno anche visibilmente spaventato dall’irrefrenabile euforia del genitore. Insomma, Mou ha fatto ripartire anche il treno generazionale. La crisi delle vocazioni da questa sponda del Tevere sembra scongiurata per i prossimi decenni.


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