Roma, la scena è ancora di Mourinho

Roma, la scena è ancora di Mourinho© AS Roma via Getty Images
Giancarlo Dotto
4 min
TagsRoma

«Parleremo solo il 13 agosto...». Così è stato. Dalla notte di Tirana, muto. Solo frammenti, mozziconi, lasciati affiorare come per caso e non era un caso a proposito di un mercato fin lì reticente («Sono frustrato...»). Si rifà vivo e parlante a poche ore dall’inizio della sua storia romanista, atto secondo. La parola promessa di Mou arriva come una secchiata di pioggia o grandine, fate voi, sulla siccità del mondo che pende dalle sue labbra. Diabolico come pochi, Josè sa come inchiodare apostoli e nemici al suo copione. La sua gestione della scena mediatica è come sempre clamorosa. Anche stavolta non sbaglia una parola, una virgola, una pausa, un respiro. Rispetto agli anni interisti la sua gamma è migliorata, epurandosi del superfluo è diventata ancora più ricca. Sfrutta le incertezze e i limiti del suo italiano (peraltro più forbito della metà dei colleghi di lingua madre) per esasperare l’impatto di sintesi brucianti (un giornalista precipita la domanda, mangiandosi un bel po’ di sillabe, lui ascolta fino in fondo, si rivolge all’ufficio stampa e fa liquidatorio: «Troppo veloce per me...». Zac, Zorro!).

Esattamente come l’anno prima in Campidoglio, dove si presentò al mondo romanista dopo aver dialogato con la statua di Marco Aurelio, Mourinho mette insieme un abilissimo contrappunto di elogi che sconfinano nell’avvertimento, di plausi che sottintendono il fischio. Enuncia i meriti della società («5 buoni giocatori per 7 milioni»), facendo capire quanto potrebbero e dovrebbero essere più grandi, sottolinea i limiti residui dell’organico che «per quanto migliore» non basta a sognare. Denuncia l’infondatezza dei sogni («Roma da scudetto? Solo Samp e Lecce hanno speso meno di noi. E allora perché no la Lazio che ha speso 39 milioni?») ma ti fa capire che basterebbe poco, un piccolo sforzo ancora, per sognare (vincere al primo anno non era considerato comunque un sogno?).

Circoscrive il campo delle favole e degli zecchini d’oro ma non manca di dire che la Roma il suo scudetto l’ha già vinto, l’amore dei tifosi. Qualcuno può smentirlo? Qualcuno può contestare il concetto che Mou il suo capolavoro alla Roma l’ha già firmato, eccome? Abile e sinuoso, stende un grande elogio di Ancelotti, non mancando di ricordare che è alla guida del «più grande club del mondo». Non la pone lui la questione, non lo farebbe mai, ma fa sì che siano gli altri a porsela: esisterebbe un Carlo Ancelotti o altri suoi colleghi senza un Real, un Milan, un Chelsea o un Bayern alle spalle? Josè Mourinho ha dimostrato di poter esistere anche senza un club gigantesco alle spalle. Non lo dirà mai, o forse sì, ma il suo primo anno alla Roma, l’Olimpico di Roma-Shakhtar, è la più grande impresa sin qui della sua storia di allenatore. Non lo dice, non se lo dice, lo fa capire.

Toglie la pressione del mondo esterno ai suoi («assurdo parlare di scudetto») perché vuole essere lui l’unico a mettergli pressione. Ma mette pressione alla società. «Ancora frustrato?», la domanda. Occhio alla finezza: «Forse è troppo parlare di frustrazione...ma per una stagione senza paure, ho bisogno di qualcosa in più» (Belotti, forse? Il più romanista come attitudini tra i giocatori che non hanno mai giocato nella Roma). Dunque, un po’ frustrato ancora sì. 

La mia sintesi, al fondo di questa rutilante partitura mourinhana dell’applaudire e dello sferzare? Josè allena in realtà due “dream team” all’interno della Roma. Il primo è la squadra e se l’è conquistato pezzo a pezzo. Il secondo è la società. Tiago Pinto il suo braccio, i due Friedkin i suoi mentori e ora compari. Di sogni e d’imprese. Tutti a giocare insieme, come non si vedeva da una vita.


© RIPRODUZIONE RISERVATA