Roma bellissima, ma per metà

Roma bellissima, ma per metà© Getty Images
Marco Evangelisti
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Così ha persino un senso questa Roma costruita per vivere di giochi di luce e sprazzi di fantasia, fiduciosa di essere un passo avanti a chiunque là dove tutto si crea e nulla si distrugge. Fatta per meravigliare, non per persuadere. Ancora molto evanescente nelle zone in cui dovrebbe essere più compatta e conquistare il campo, ma molto simile a ciò che si aspetta di diventare da quando si è piacevolmente regalata un’estate di brindisi. Paulo Dybala aggiunto a Tammy Abraham, palla a loro due e vediamo che cosa succede. Perché qualcosa succede e ieri a Empoli ne abbiamo analizzato un campione.

Non c’è nulla di peggio che dover risalire da una scarpata e trovare un pendio tanto scivoloso: Lammers e Pjaca e Satriano macinano palloni come il caffè e tutti corrono al servizio di un’idea. Mentre la Roma non ha nelle sue fibre muscolari il ritmo allegro con brio, procede a passo di messa solenne, sin troppo per un campionato che sempre più ti mette davanti brevilinei di buona qualità e frequenze elevate. Inutile stare a ripetere che la perdita di Wijnaldum e l’assenza di Zaniolo, ieri risparmiato da Mourinho con il coraggio dei filosofi e la sfrontatezza dei ribaldi, ingarbugliano il gioco che la Roma potrebbe e dovrebbe esibire, rendendolo pesante e monocorde. Ma è per questo che esistono Abraham e Dybala, Dybala e Abraham, l’inglese per afferrare la palla sul confine dell’area difensiva e poi risalire a riagganciarlo e spedirlo in fondo alla rete che si stende dall’altra parte; l’argentino per tracciare palloni che si spengono precisi dove devono, all’incrocio dei pali o sui piedi di chi ha il compito di farli fruttare.

Mancherebbe a questo elenco omerico di capi in battaglia il nome di Pellegrini, il quale ha avuto la sua occasione di farsi citare e l’ha sprecata dal disco del rigore contro la traversa. Però possiamo dargli ugualmente il posto che gli spetta, accreditandolo di un folto mazzo di passaggi incisivi, di estenuante arretramento finalizzato alla costruzione della manovra e di un dribbling di tacco nel mezzo della difesa avversaria che valeva da solo viaggio e biglietto. In conclusione, la Roma è quella che dovrebbe essere per una buona metà.

Latita l’altra metà è non è un piccolo particolare. Star lì a sudarsi i tre punti, la zona Champions e la risalita dal burrone di due sconfitte consecutive davanti all’Empoli offeso anche da un cartellino rosso - che ci voglia il Var per scoprire l’intervento sbragato di Akpa Akpro su Smalling è segno della cupezza dei tempi arbitrali - non è un buon viatico per il cammino a venire, con tutto il miele che vogliamo versare, e che Mourinho ha versato, sul brillante gioco di Zanetti. Ma intanto la Roma è perfettamente in simbiosi con il suo allenatore. Ha in sé tutto il senso del calcio come lo intende lui: uno sport in cui tre quarti di campo vanno obliterati il più in fretta possibile e tutte le cose che contano succedono nell’ultimo tratto.

È lì, sulle zolle di prato che Abraham, Dybala e Zaniolo e Pellegrini quando può rendono bollente, che sta il surplus, il patrimonio che i giocatori devono investire meglio di quanto non accada oggi. In attesa di essere riforniti più abbondantemente dal centrocampo, di essere sollevati dalla necessità di andarsi a riprendere il pallone nella terra di nessuno. Anche ieri che Dybala e Abraham hanno estratto i conigli d’ordinanza dai rispettivi cilindri, Mourinho ha urlato contro i pali (pure Zanetti, a dire il vero), i tiri sprecati, il rigore sbagliato. Poi bastano un’intuizione, il colpo di fulmine per una trovata, un numero che ad altri non verrebbe in mente per scassinare la partita. Il fatto è che non sempre il genio al lavoro riesce a cambiare il mondo. Occorre anche che chi ha un coefficiente di classe meno ricco metta dentro il pallone dal centro dell’area o si butti a pesce su un rimbalzo o colpisca di fronte senza troppi svolazzi, alla Bremer per intendersi. Altrimenti persino la mezza Roma che è bella, ma bella sul serio, corre il pericolo di perdere la presa sui pendii scivolosi e di ricadere stordita nella scarpata.

 


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