Roma, sindrome da finale

Leggi il commento sul pareggio dei giallorossi contro la Salernitana: i pensieri di Mourinho sono rivolti a Budapest per la finale di Europa League
Roma, sindrome da finale© AS Roma via Getty Images
Marco Evangelisti
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Il piano B era la Roma A, chiamata a intervenire d’urgenza tra il primo e il secondo tempo, mentre la camera di consiglio finiva di elucubrare intorno al numero di punti di penalizzazione da assegnare alla Juventus perché fossero afflittivi ma non troppo e la classifica del campionato si attorcigliava in un caos quantistico di ipotesi alternative, graduatorie avulse e qualificazioni virtuali alla Champions League. Non ha funzionato, non del tutto, per merito della Salernitana che Paulo Sousa riesce a condurre con delicatezza e flessibilità pittoriche e che risponde alle sue istruzioni come le immagini di un cartone animato al tocco del disegnatore o come un cavallo da rodeo alle sollecitazioni del cowboy. Peraltro, oltre a essersi salvati con discreta comodità e ad aver messo alle corde più di una squadra in teoria migliore, i granata erano coscienti sin dall’inizio di rappresentare una perfetta antitesi a questa Roma sofferente per fatica accumulata e condannata a un perenne disagio esistenziale per la sproporzione tra livello di sfida e qualità intrinseche. Dia che affettava il filtro e Piatek che scavava nella celebrata difesa mourinhana in casi del genere stanno insieme stile cacio e maccheroni. 

Roma disorientata

D’altronde è evidente e naturale il disorientamento che sta cogliendo la Roma in questo finale di stagione. Chiusa dentro una scatola come il gatto di Schrödinger, impossibilitata a distinguere il proprio stato, esclusa e inclusa nella corsa alla Champions contemporaneamente, legata come altre quattro o cinque club a punti altrui che vanno e vengono. Avesse vinto ieri, tutto sarebbe stato ancora possibile ancorché improbabile. Ha pareggiato, è quasi fuori e forse è addirittura salutare questo scioglimento amaro della vicenda del campionato. Ora per Mourinho si tratta di preparare la ventisettesima finale della sua carriera senza se, senza ma e senza calcoli, quelli da mal di testa e quelli al fegato. Già ieri tra Dybala gioia di cristallo da tenere il più lontano possibile dalla tentazione di giocare, Bove trasfigurato in difensore centrale, Tahirovic dichiarato adulto sul campo, Belotti e Solbakken impantanati in una tossica mediocrità, la Roma era costruita come una zattera, con i resti di un naufragio. Quando sono entrati insieme Matic, Pellegrini e Llorente, questi al posto di Ibañez ancora colto da letargie ricorrenti, al pubblico giallorosso mai sazio è sembrato di assistere all’arrivo dei Ghostbusters.  

Roma, non resta che vincere l'Europa League

Eppure, che a Mourinho perdere una partita o anche solo perdere punti non vada mai giù e che tuttora terrebbe a inventarsi qualche miracolo in campionato - sono pure in palio gli altri posti europei, eh - è certificato da quel gesto di composta esultanza sfuggitogli al primo pari. E pure dal ghigno intriso di ironia dolorosa con il quale è tornato negli spogliatoi a fine partita. E dalle frasi frizzanti pronunciate dopo la gara e dall’aureola oscura che gli ha orbitato intorno per tutto il lungo pomeriggio. Possiede troppa sapienza calcistica e troppa esperienza esistenziale per non sapere che chiudersi in un vicolo cieco, o nascondersi dentro una scatola, non è mai saggio. Che avere una sola scelta e lasciarsi una sola via d’uscita sono le cose più pericolose del mondo. Per questo ieri si era preparato il piano B, cioè la Roma A 
Ma sa pure, e lo ha ripetuto a filastrocca, che dalla Roma tutto non può avere. Le risorse della rosa sono quelle che sono, il talento non è così diffuso tra i suoi bensì concentrato in poche e limpide sorgenti, la maturità cresce lenta e placida anche se cerchi di innaffiarla tutti i giorni. Il pareggio di ieri lo libera almeno in parte da questa nevrosi. Alla Roma non resta che vincere l’Europa League, perché sì e perché è probabilmente rimasta la sola via d’accesso alla Champions. Non serve un miracolo, serve solo un gioco di prestigio. Lui e la Roma non vedono l’ora che si accendano le luci lì sul palco.


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