BURTON UPON TRENT - Matias Soulé ride sempre. Nell’ora abbondante che trascorriamo insieme nella hall del St. George Park, tra un allenamento e l'altro, parla in italiano, non beve il mate come è solito fare (Dybala e Paredes hanno trovato il perfetto “team-mate”) e si concede qualche battuta. Ci sono un paio di momenti in cui la voce si spezza e gli occhi si fanno lucidi, si abbassano: l'attaccante per cui la Roma ha speso praticamente 30 milioni è pur sempre un ragazzo di vent'anni che si emoziona ripensando a quando la trattativa stava per saltare («volevo così tanto venire che avevo le lacrime al pensiero che non andasse in porto») e si commuove ricordando la nonna scomparsa un anno fa: «Ho scelto la maglia numero 18 per lei». Impossibile non associare nazionalità argentina e numero a un certo Gabriel Omar Batistuta: la Roma lo pagò, in lire, poco di più rispetto a quanto è costato Soulé: lui prese il 18, come è finita nel 2001 lo sanno tutti. Paragone troppo ingombrante? Senz’altro. Ma Soulé, a parte quei due o tre momenti di emozione, è uno che parla con la schiena dritta e la voce sicura: «Dimostrerò in campo di valere i soldi che il club ha speso per me». E mentre sorride in Inghilterra piove, fa freddo, sembra autunno. Questo Paese sarebbe potuto essere il suo. E invece eccoci qua, con la Roma.
Soulé, finalmente la Roma.
«Essere qui è meraviglioso. La trattativa è stata lunga, avevo l’ansia di non poter arrivare ma tutto è andato per il meglio. I Friedkin mi hanno voluto fortemente, ho subito capito la loro ambizione per questo club e dove vogliono portarlo. E ora sono qui, in ritiro con la mia nuova squadra e non potevo chiedere di meglio. Stiamo lavorando sodo e con grande intensità: saremo pronti per la prima di campionato contro il Cagliari».
De Rossi stravede per lei.
«E io per lui. Spinge tanto, è un grande lavoratore e un ottimo tecnico. Ho parlato più volte con lui durante la trattativa e devo dire che non parla solo spagnolo, ha anche un ottimo accento argentino. Mi ha raccontato la Roma, di come si vive il calcio qui e durante questo ritiro è stato eccezionale. Sta istillando una mentalità vincente alla squadra e ci sta fornendo una preparazione fisica e tattica che sarà cruciale per la stagione».
Come è stato l’inserimento nel gruppo?
«Mi hanno accolto tutti davvero benissimo, siamo una famiglia. Poi chiaramente Dybala e Paredes mi hanno preso sotto la loro ala protettiva. Così come Angeliño che è spagnolo ma fa parte del nostro gruppetto».
E poi, naturalmente, c’è Dybala.
«Per me è un fratello maggiore, una guida non nel calcio ma nella vita. Quando ero più piccolo, lo vedevo come un mostro sacro, un giocatore a cui non riuscivo ad avvicinarmi perché ero in soggezione. Poi abbiamo cominciato a conoscerci siamo entrati in sintonia e abbiamo stretto un buon rapporto alla Juventus. C’è un aneddoto che non mi dimenticherò mai».
Prego.
«Era l’ultimo anno di Paulo alla Juve, stava giocando una delle partite fi nali della stagione. Mancava un quarto d’ora alla fine quando lo vedo parlare a distanza con Landucci (il vice allenatore, ndi) mentre intanto mi indicava. Purtroppo erano finite le sostituzioni ma Dybala aveva chiesto alla panchina di farmi entrare perché voleva giocare con me almeno una volta prima di lasciare la Juve. È un ricordo che resterà sempre con me, perché mi ha fatto capire quanto ci tenesse a me, e la sua stima nei miei confronti».
Adesso il sogno si è realizzato.
«Esatto, e ne sono felicissimo. Quando Paulo ha lasciato la Juve io gli avevo mandato il messaggio “Spero con tutto il cuore di poter un giorno giocare insieme a te”. Scherzi del destino, tre anni dopo eccoci qua insieme».
Magari un giorno giocherete insieme anche nell’Argentina.
«Sarebbe un altro sogno. Ho detto, con grande rispetto, no a Spalletti per la convocazione con l’Italia perché io sono a tutti gli effetti argentino e vorrei rappresentare la mia nazione. Farlo con Dybala e Paredes, due campioni del Mondo, sarebbe un altro momento indimenticabile. Intanto mi godo questi momenti: mi stanno aiutando tanto, li prendo come punti di riferimento per crescere tecnicamente e mentalmente. Da due come loro si può solo imparare».
Quando ha cominciato a pensare alla Roma?
«Ero in vacanza a Punta Cana, nella Repubblica Dominicana, quando il mio agente mi ha informato che la Roma era interessata. Dopo un paio di giorni quel sondaggio si era trasformato invece in una vera e propria richiesta di trasferimento e lo stesso giorno mi era arrivato il messaggio di De Rossi per dirmi che mi aspettava a Trigoria. Lì è scattata la scintilla».
Come mai?
«Perché mi hanno voluto così tanto che era impossibile dire di no. Le chiamate del mister, poi i Friedkin si sono spesi in prima persona, la dirigenza mi ha fatto capire quanto volessero puntare su di me. Questa loro voglia di avermi mi ha spinto a considerare solo questa opportunità anche se ne avevo altre in Premier».
L’Inghilterra è il sogno di tanti giocatori.
«Inizialmente era anche il mio. Il Leicester mi voleva tanto, mi avevano chiamato sia il tecnico sia il direttore sportivo per convincermi del loro progetto. Ma poi ho sentito l’affetto di De Rossi, della Roma, dei compagni di squadra che mi hanno contattato e ho deciso da quel momento di dire no a tutti gli altri club e a pensare soltanto alla Roma per tutti questi motivi più uno».
Quale?
«I tifosi. Sono uno spettacolo, e non è tanto per dire. La scorsa stagione Paulo e Leo mi hanno invitato all’Olimpico ad assistere alla sfida di Europa League contro il Feyenoord. Sono entrato, ho sentito 70mila persone cantare dall’inno fino alla fine della gara. Una volta uscito ho detto a mio fratello di non aver mai visto una tifoseria così passionale. Un’emozione incredibile, da brividi. Già lì onestamente avevo pensato alla Roma, quando ancora non sapevo neanche se avrei continuato alla Juventus».
Arriviamo allora al capitolo bianconero.
«Un tasto un po’ dolente, soprattutto per i primi mesi del 2024. Perché non pensavo di lasciare la Juve, anzi, ero concentrato a giocare bene con il Frosinone per meritarmi una maglia. Invece poi a gennaio vengo a sapere che mi stavano cedendo a un club arabo, ma io non avevo alcuna intenzione di andarci anche se ormai mi era chiaro quale sarebbe stato il mio futuro. Ne sono rimasto deluso perché pensavo di poter giocare per la Juve, ma poi me ne sono fatto una ragione».
Come è andato il ritiro con Thiago Motta?
«Benissimo, il mister è una persona squisita. Mi è sempre stato vicino, mi ha supportato, allenato e dato tanti consigli. Poi scherzava molto con me: “Tu non te ne vai via da qui se non lasci 70 milioni” (ride, ndr). La verità è che Thiago voleva che io restassi alla Juve, mi vedeva benissimo nei suoi piani e nel suo attacco. Ma ormai la decisione della Juve era stata presa: servivo per fare cassa, l’ho accettato e a quel punto non vedevo l’ora di andare via. Non rimpiango nulla della mia esperienza alla Juve dove sono stato benissimo, giusto quell’addio a gennaio inaspettato».
Alla terza giornata tornerà allo Stadium. «E non vedo l’ora. Non per vendicarmi, ci mancherebbe, ma per dimostrare che in quella Juve avrei potuto comunque far bene. Mi farà piacere poi rivedere Thiago che mi ha detto scherzando “Metto Gatti su di te così ti mena”. Ormai il bianconero è il passato, i giallorossi sono il presente e il mio futuro, un punto di arrivo per me. Ah, naturalmente voglio vincere quella partita per la Roma per la quale ho anche sofferto».
Durante la trattativa?
«Sì, perché c’erano stati un paio di giorni in cui temevo che potesse saltare e avevo le lacrime agli occhi. De Rossi mi ha chiamato per farmi stare tranquillo e per convincermi. “Mister tu mi hai convinto dal primo messaggio”, gli ho detto scherzando. Alla fine è andato tutto a buon fine, grazie all’investimento importante della proprietà per portarmi nella Capitale».
Trenta milioni, bonus compresi, alla Juve: sente il peso di questa cifra?
«No, anzi è uno stimolo per dimostrare di valerli quei soldi. La pressione nel calcio è normale, senza non possiamo avere stimoli o migliorare. Quei trenta milioni investiti dai Friedkin li dimostrerò in campo».
Sempre con il suo solito sorriso stampato sul volto.
«Mi piace sorridere, lo faccio sempre, soprattutto da quando sono qui. Io penso che il calcio debba essere vissuto con professionalità ma anche divertimento, altrimenti che gusto c’è a fare il mestiere più bello del mondo?».
Il suo divertimento si vede in campo anche dal suo modo di giocare.
«Sì, è vero. Io godo nel fare un dribbling, una giocata, un assist, un gol. È pura estasi per me, per la mia squadra e per i miei tifosi. I giovani devono osare di più, devono divertirsi e anche sentirsi liberi di farlo. Poi dicono che il ragazzino non può scendere in campo perché ha poca esperienza: ma come la fai se non giochi? Bisogna dare più possibilità ai giovani di giocare, crescere e maturare. La Roma in questo aspetto è un esempio».
La sua esperienza nella Next Gen l’ha aiutata a crescere?
«Moltissimo, raccomando a tutti i ragazzi di andare a giocare in prestito nelle categorie inferiori prima di partire subito con la prima squadra. Perché tra la Primavera e i grandi c’è un abisso, e l’avventura nell’Under 23, tra giocatori esperti e che ti fanno sentire sulla pelle il peso del professionismo, aiuta a crescere tecnicamente e anche atleticamente».
Al Velez giocava alto a sinistra, tra la Juve e il Frosinone a destra ma anche seconda punta. Adesso De Rossi cosa le chiede?
«Di essere Soulé. Un giocatore imprevedibile in avanti, libero di muoversi e inventare negli ultimi venti metri. Devo fare la giocata, dare fantasia insieme agli altri attaccanti e buttarla dentro. Certo, anche con i compiti difensivi a cui ora sono abituato grazie al lavoro di Di Francesco nel Frosinone».
De Rossi sta lavorando molto su più soluzioni tattiche.
«Sì, ma tutte con una grande regola: l’intensità. Sia nella trasmissione del pallone, sia nei nostri movimenti anche senza pallone. Quanto a me, potrei giocare ovunque: a destra con Dybala trequartista centrale, da seconda punta o anche a sinistra».
Se lei gioca a destra, Dybala nel 4-2-3-1 può giocare alle spalle del centravanti.
«Sì, è una possibilità che abbiamo studiato. Ho parlato tanto con Paulo per trovare la giusta intesa in queste posizioni. Se lui si allarga io invece mi inserisco, e viceversa. Ci cercheremo tanto in campo anche per muoverci in sinergia e per garantire anche una buona copertura difensiva».
Un giocatore che l’ha impressionata?
«Dico Le Fée, che non conoscevo. È davvero forte. Ha stupito tutti in squadra, può fare tutti i ruoli del centrocampo e con la stessa qualità. Sarà divertente giocare con lui».
Dovbyk invece?
«È un gigante (ride, ndr). È davvero forte e che potrà essere un valore aggiunto per questa Roma. È un grande acquisto, come tutti quelli che sono arrivati. Siamo proprio un bel gruppo capitanato da Pellegrini».
Le ha già spiegato il valore del derby?
«Non ancora, ma lo conosco bene. Voglio vincere questa partita, è un mio obiettivo e non vedo l’ora di giocarla. Questo è il mio carattere: quando voglio una cosa lavoro duramente per ottenerla».
È uno stile di vita.
«Sì, e mi ha accompagnato nel calcio sin dall’infanzia. Quando ero piccolo avevo già in testa di fare il calciatore, poi con il passare del tempo ho sempre raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato fino a raggiungere l’Italia. Appena arrivo a un traguardo, penso subito a quello successivo. A volte rischio di non godermi troppo il risultato, ma è un continuo stimolo che mi aiuta a migliorare».
E adesso quali sono gli obiettivi?
«Vincere con la Roma. Prima di tutto qualificarci in Champions, poi riuscire ad andare il più lontano possibile in Europa League e in Coppa Italia. Il futuro può essere nostro, questa è una squadra costruita bene per crescere e migliorare anche con il passare degli anni».
Chi deve ringraziare per essere qui alla Roma?
«I Friedkin che hanno spinto per avermi, così come De Rossi e la dirigenza: Lina Souloukou e Florent Ghisolfi che hanno lavorato tanto per portarmi qui. Devo dire grazie anche al mio procuratore Martin Guastadisegno che mi è stato vicino per tutto questo periodo. E naturalmente alla mia famiglia. Senza di loro non sarei arrivato fin qui. Hanno cambiato la loro vita per me».
La seguiranno anche a Roma?
«Probabilmente resteranno a Frosinone dove si sono trovati bene. In ogni caso mi staranno sempre vicino e non mi lasceranno mai da solo. Se posso, vorrei dedicare questa mio traguardo, la Roma, a una persona».
Ci mancherebbe.
«Lo dedico a mia nonna che se ne è andata proprio un anno fa. Stavo partendo con la Juve per andare a giocare la prima di campionato contro l’Udinese quando prima di salire sull’aereo mio padre mi diede la notizia della sua scomparsa. Continuerò a pensarla e a ricordarla per tutto l’amore che mi ha dato. Per lei ho scelto la maglia numero 18. Prima di andarsene mi disse: “Mi piacerebbe che continuassi a giocare in Italia”. Sarebbe contentissima di vedermi qui alla Roma.