Proteste Roma, Ghisolfi non basta: serve una figura carismatica

L’abbandono del silenzio è un passo verso la normalità, ma i Friedkin devono fare uno sforzo in più per far valere i propri diritti
Roberto Maida
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In francese si chiama allure. Ed è un termine ormai molto utilizzato nel gergo internazionale. Significa andatura, passo. E per estensione, fascino. Ecco, anche per protestare con efficacia e attirare l’attenzione di chi ascolta serve allure. La Roma, dopo mesi di assoluto silenzio dirigenziale, ha mandato a parlare il suo giovane direttore sportivo, evidentemente poco avvezzo alle luci delle telecamere. Spaurito e imbarazzato, Florent Ghisolfi ha provato attraverso l’interprete a manifestare l’indignazione della società a proposito del rigore negato a Baldanzi a Monza. E’ sempre meglio dire le cose che tacere, quando si percepisce un’ingiustizia. Ma questo genere di interventi dev’essere utilizzato con astuzia e padronanza, altrimenti rischia di diventare soltanto una vocina che si spegne nel vuoto. Ha l’aspetto di una patina da sfruttare per filtrare la rabbia dei tifosi, arrivati al punto minimo del consenso nel quadriennio dei Friedkin, e nient’altro.

Rabbia Roma, tutti i casi

L’indignazione della Roma è comprensibile: in sette giornate di campionato le mancano già tre rigori decisivi. Il primo nel finale di Roma-Empoli (1-2, trattenuta su Shomurodov); il secondo nel primo tempo di Genoa-Roma (1-1, sgambetto a Dybala); il terzo appunto domenica, negli ultimi minuti della partita, quando Kyriakopoulos è franato addosso a Baldanzi. Nessuno a Trigoria ipotizza complotti, per carità. Ma le coincidenze minano le certezze con la contundenza di tre punteruoli: se i rigori fossero stati assegnati e poi convertiti, la Roma avrebbe magari conquistato 5 punti in più in classifica e sarebbe salita a un passo dal Napoli capolista. I Friedkin non avrebbero potuto/voluto cacciare De Rossi per chiamare il pronto soccorso Juric. Sarebbe stata un’altra vita, insomma. Detto ciò, riconosciuto il diritto di tutti all’applicazione equanime del regolamento, la politica del calcio è anche forma, non solo sostanza. Ghisolfi è francese e conosce bene l’allure ma non è il dirigente che può rappresentare pubblicamente il malessere dei Friedkin. Non solo perché dopo quattro mesi abbondanti nella Roma non ha ancora familiarizzato con l’italiano ma soprattutto perché non sembra possedere la personalità magnetica dei leader. Non è questo il suo ruolo.

Roma, serve una figura carismatica

In queste situazioni delicate la Roma denuncia l’assenza di una figura credibile da spendere davanti ai media. Immaginate quanto rumore avrebbe potuto fare un personaggio come Totti, se avesse contestato la (in)decisione del concittadino La Penna e il mancato intervento del Var, Aureliano. Ma siccome il feeling tra i Friedkin e Totti non è sbocciato, basterebbe riempire tutte le caselle dell’organigramma con le figure giuste al posto giusto: un direttore tecnico ad esempio non c’è. Ghisolfi è l’unico uomo “di campo” che frequenti gli uffici di Trigoria. E dopo l’addio a Lina Souloukou, accompagnata all’uscita dai padroni dopo il famoso meeting in Svizzera, manca anche l’amministratore delegato, che potrebbe farsi sentire almeno in Lega. Chi conta davvero, oggi, nella Roma? Le relazioni istituzionali sono affidate all’avvocato Lorenzo Vitali, che non è stato promosso al ruolo di Ceo pur esercitando mansioni molto simili nella fase di transizione. Il vuoto di potere e di responsabilità rende più complicato il percorso verso la stabilità. L’impresa eccezionale è essere normali, cantava Lucio Dalla. Fate ascoltare i suoi versi alla famiglia Friedkin.


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