Fontecchio regala il suo motto abruzzese ai ragazzi di Giffoni Sport: “Nenmèllà”
La sala De Masi è piena di ragazzi innamorati della palla a spicchi. Gli ambassador di Giffoni Sport incontrano Simone Fontecchio e tanti gli dicono: “Seguiamo il basket da quando hai soffiato quel pallone contro la Serbia”. Così appassionati della pallacanestro, che dalla platea viene fuori una domanda tecnica, per intenditori. Fontecchio ama attaccare più in isolamento o in catch and shoot?. La risposta del campione, classe ’95, ala piccola di Miami Heat e Nazionale italiana, non tarda ad arrivare spontanea. “Al momento attacco più in isolamento – dice -, ma mi piacerebbe migliorare nella seconda fase. Il momento più difficile fu quando da 19enne mingherlino ho difeso su Gallinari che era al top della sua forma. In America si va fatica contro Grant: pensi che lo stai marcando bene, ma lui se ne sbatte e fa punto lo stesso”.
Il nonno e le nuvole
Il mantra di Fontecchio? “La frase che mi ripeteva sempre mio nonno. In abruzzese si dice Nenmèllà, non mollare. In sua memoria (si chiamava Vittorio Pomilio, nda), in Abruzzo, verrà inaugurato un playground”. Simone e le emozioni. La più insidiosa è la paura. “Quando affronto le gare con le maglie della Nazionale, io non ho paura. Sono molto contento di poter esserci quest'anno. Qualche giorno fa è stato naturalizzato Di Vincenzo. Lui è molto motivato, siamo contenti. ci darà una grande mano. Le emozioni? Un po’ di farfalle nello stomaco ci sono sempre: indossare la casacca azzurra è motivo di orgoglio e di responsabilità. Però mi guardo intorno e trovo persone che si fidano di me. So che se dovessi giocare male, nessuno mi punterebbe il dito contro. Gioco con fratelli del basket e ci supportiamo l’uno con l’altro. In Nba è diverso: sono pagato, c’è una certa aspettativa e l’attesa della performance che bisogna produrre. Le regole sul tiro da tre punti mi aiutano molto. Forse mi piaceva di più qualche anno fa, quando non c’era tutto questo acchiappa e tira, ma il bello della pallacanestro è che è sempre in evoluzione”.
L’Abruzzo e l’America
“Sono cresciuto a Francavilla a Mare, dove torniamo ogni estate con la famiglia. Si era appena aperto il mercato Nba, che va avanti ininterrottamente da fine giugno a febbraio. Ero già a letto quando è stato comunicato, poi l’ho scoperto su Instagram. È sempre stato un sogno giocare e vivere a Miami. Adesso attendiamo sviluppi, non so il mercato che cosa riserverà. C’è tanta concorrenza, solo 450 giocatori possono giocare in Nba. A un ragazzo di 17, 18 anni dico che bisogna farsi un sedere così, mettendosi a lavorare sulle cose che non ci piacciono e nelle quali ci si sente meno bravi, investendo tempo e anche soldi su noi stessi. Ad esempio io investo abbastanza per curarmi e migliorare ogni estate”. Qual è stata la difficoltà? “L’idea di pallacanestro. In Italia ero abituato a prendere tiri. Negli States non potevo farlo: in NBA ho dovuto adattarmi al loro stile, all’idea di basket. Era l’ultimo giorno nel quale la Nba avrebbe potuto offrimi un contratto, non ci speravo più. Le differenze culturali ci sono. Il primo ostacolo da superare è stato i rapporti personali: magari ci si pone subito in modo amichevole ma non si resta in superficie, difficilmente si va in profondità. È diverso anche il ruolo dei coach. In America, i giocatori hanno molto controllo nella Lega, a livello di regole e anche dei soldi che percepiscono. Volente o nolente, un allenatore può trovarsi in difficoltà nella gestione delle superstar, quando ce ne sono tre o quattro nel roster. In Europa è più difficile che Obradovic non riesca ad imporsi”.
La famiglia
Il padre di Simone è stato un campione dell’atletica leggera. La competizione, la pressione hanno avuto un peso: “Soffrivo un po’ il paragone con mio fratello maggiore, ai suoi tempi medaglia d’argento con la Nazionale Under 20 agli Europei. Era un valido prospetto. La famiglia, però, mi ha aiutato tanto a crescere in fiducia e in autostima. La cosa più importante che il basket mi ha insegnato l’umiltà e il rispetto. È uno sport per persone alte, ma non c’è un’altezza prestabilita. Non importa solo quanto tu sia alto o bravo, ma la forza di volontà. Si può avere anche zero talento, ma se in campo butti l’anima, le persone importanti che prendono decisioni nella pallacanestro se ne accorgono. La cazzimma non deve mai mancare”. Fontecchio ha svoltato a Berlino: “Tappa fondamentale per me e per la mia famiglia, la prima volta che siamo usciti fuori dall’Italia. Era un momento particolare, Covid e lockdown. L’ho vissuta con mia moglie e mia figlia Bianca, che all’epoca era piccolina. Non si poteva uscire molto, ma ho vissuto tutto in maniera magica: un’annata eccezionale con la squadra, la città e il gruppo, culminata con la vittoria del campionato”.
