America's Kappaò

I momenti e gli eroi del passato riletti al presente. Nelle emozioni la carica per resistere e ripartire
Mimmo Carratelli
11 min

Pasquale Nonno, direttore de Il Mattino di Napoli, grosso e giocondo, sempre con la faccia da bambino divertito, mi fa: «Vai in America, c’è questa barca italiana per la Coppa di vela. Tu scrivi di calcio senza capirne. Lo so. Ora scriverai di vela. Non fa diff erenza. Anche di vela non capisci niente. Buon viaggio. La barca italiana si chiama Moro. È il Moro di Venezia». Ei fu siccome immobile, storicamente non un gran giorno, 5 maggio 1992, sbarco a San Diego, California, per l’America’s Cup. Ed eccomi al quarto piano del Centro stampa in Piazza America a imparare vela da Carlo Marincovich, e da chi se no?, gran ragazzo di Pescara, è andato per mare con Soldini e con Fogar, scrive su la Repubblica ed è un asso delle cronache di vela e di formula uno. E così so di bompresso e tangone, randa, gennaker e genoa. Da Damiano Iovine, che scrive per Panorama, vado a lezione di verricelli.

Ho due assi nella manica per guadagnarmi la stima dei più esperti. A San Diego c’è Cino Ricci, ci siamo conosciuti alle regate di Capri. E, soprattutto, c’è Davide Tizzano, il mio napoletano sul Moro, campione mondiale e olimpico di canottaggio, grinder di prua sulla barca italiana. Mi precipito nella baia di Shelter Island, dov’è la base del Moro, ciao Davide, ci abbracciamo, con te vado sicuro, gli dico, ti dirò tutto quello che vuoi, mi dice. Al Centro stampa su una parete azzecco un foglio sul quale ho scritto: “Tizzano mi dà una mano”. Prendo quota.

Marincovich mi dice che abbiamo un problema con le vele. Sai, il kevlar? mi chiede. Non so, gli dico. Il Moro ha vele nere in fi bra di carbonio, gli americani hanno vele a cristalli liquidi. Annuso che è uno svantaggio per il Moro, ma non ne sono sicuro. Un’altra cosa (mi avverte Marincovich): di poppa non è che andiamo benissimo, la randa del Moro frena. Sono ammirato.

Ed eccomi al cospetto della madre di tutte le battaglie veliche, con queste due barche di 22 metri e alberi di 33, il Moro, armatore Raul Gardini, gran romagnolo d’affari (Montedison) e di fortuna (ricco matrimonio), contro America al cubo. Scrivo un pezzo romantico ricordando Azzurra e Italia, le nostre barche di America’s Cup nei mari di Newport e Freemantle, ma a San Diego il Moro si gioca la finale, prima barca italiana in finale di America’s Cup su questo mare della West Coast americana davanti a colline di cedri, querce, pini e palme, con un vento capriccioso, il Catalina Eddie lo chiamano, viene dai monti della Sierra Nevada, ci scrivo 70 righe ventose.

Sabato 9 maggio. Mezzogiorno in punto quando il giudice svedese Goran Petersson, con i colleghi di Hong Kong, Malta, Canada e Gran Bretagna, spara il via della prima regata. Sono le 21 in Italia. Vedere e scrivere in fretta. Iovine mi sussurra che la baia di San Diego è piena di alghe che si impigliano nelle chiglie delle barche. Rinuncio all’idea di mettere giù 50 righe sulle alghe di San Diego. Al via, il “Moro” anticipa la partenza e deve tornare indietro riallineandosi allo start. “America al cubo” se ne va e vince per 30 secondi. Dettaglio suggestivo per un pezzo di appoggio: l’armatore di “America al cubo”, Bill Koch, mentre timonava ha preso un colpo dal boma, pàm, al capo.

Il timoniere del Moro è Paul Cayard, uno di queste parti, californiano di San Francisco (ho conosciuto anche lui alle regate di Capri), un viso a forma di oliva, baffo furbo, occhi verdi, capelli ricci e ribelli, cittadinanza americana e francese, residenza obbligatoria italiana per stare sul Moro. È considerato il secondo miglior timoniere al mondo dopo Dennis Conner. Dennis è proprio di San Diego, ma ha fallito la finale con Stars and Stripes, eliminato da “America al cubo”.

Guardo il porto turistico di San Diego. Ventimila barche. Penso al porticciolo di Mergellina, a quello di Santa Lucia. Mi viene una invidia forte. Ho detto di Bill Koch, personaggio infinito. Sarà il personaggio ricorrente dei miei pezzi, ogni volta che parla regala un titolo di giornale.

Domenica 10 maggio. Una furbata mondiale. Il Moro se la batte onda su onda con “America al cubo”. Arrivano identici sul traguardo, ma qui quelli del Moro sganciano lo spinnaker che, allungandosi, sopravanza le prue delle due barche e fa scattare i sensori dell’arrivo. Primo il Moro per tre secondi.

Andiamo da Raul Gardini, faccia segnata dal sole, giacca a vento rossa, scarpe da tennis, bel tenebroso, un po’ Humphrey Bogart. Stando a poppa, ha fumato trenta sigarette: «Non ho capito subito che avevamo vinto. Ci sono voluti dei minuti. Fantini il prodiere ha urlato che eravamo primi, ma esultavano anche gli americani. Poi è stato chiaro, avevamo vinto noi».

Mi sto divertendo. Tento una sortita alla base di “America al cubo”. All’ingresso una gigantesca bandiera americana, grande quando il loro gennaker di 350 metri quadrati, un palazzo. Respinto dalle guardie armate dei servizi di sicurezza dell’Agenzia Pinkerton. Questa “America al cubo” ha segreti inviolabili. Chiedi del bulbo, mi aveva detto Marincovich. La barca, nata nei laboratori spaziali americani, è uscita dai cervelloni dell’Istituto di tecnologia di Boston. Lo scafo bianco dà l’idea di un uccello marino molto stilizzato. Tutto quello che riesco a tirar fuori, buono per un pezzo di 80 righe (ne scrivo tre al giorno, c’è ampio materiale, gossip e tangoni), è la presenza alla base del palermitano Johnny Tarantino, ristoratore a San Diego, che prepara per l’equipaggio ravioli alla ricotta e lasagne.

Martedì 12 maggio, terza regata. Stefano Roberti, rapporti con la stampa, declama: «Lo scafo americano è un passo avanti al Moro. America quando sbanda sposta meno acqua, cioè frena meno». Vento a 14 nodi, regata velocissima. A bordo del “Moro” Gardini ha smesso di fumare sigarette, sta fumando sigari. Cayard andando a cercare più vento lascia che “America al cubo” si allunghi. Uno del “Moro”, Fantini, marinaio acrobatico, deve andare in testa d’albero, si è lacerata la randa. Gli americani vincono con un vantaggio di 1’54”. Vanno sul 2-1.

Alla conferenza stampa, Bill Koch è tutto una festa. Mi sta antipatico, ma fa riempire tutti i miei articoli. L’omone, un miliardario del Kansas, affari per 16 miliardi di dollari, frangetta bionda declinante su una faccia lentigginosa, accenno di pappagorgia, nella sua villa in Florida, a Palm Beach, gronda di dipinti degli impressionisti francesi e, in giardino, ha grosse, tozze statue di Botero. Comincia a dire: «Io corro con i miei soldi, Gardini con i soldi della moglie». Si sa, Idina Ferruzzi è la donna più ricca di Ravenna, una delle più ricche d’Italia, impero agroalimentare. Di Bill Koch dicono che “gli escono i miliardi dalle orecchie”. Consumatore smodato di succo di ananas, con una spiga di frumento tra i denti perché si definisce un contadino del Kansas, aggiunge: «Voi italiani siete i nuovi ricchi, fate barche miliardarie, avete le scarpe più belle e potete comprarvi i calciatori più costosi come il signor Maradona». Mi sento colpito, va bene Diego che abbiamo preso a Napoli, ma ai piedi ho le Timberland.

Mercoledì 13 maggio, riposo. Condivido l’angolo più lontano dello stanzone del Centro stampa per gli italiani con Gian Paolo Ormezzano, entrambi fumatori esagerati. Lo vedo nervoso. Tifosissimo granata, il Torino gioca oggi la gara di ritorno della finale di Coppa Uefa con l’Ajax ad Amsterdam dopo il 2-2 all’andata. Ormezzano s’è organizzato una diretta telefonica da Torino. A Tuttosport mettono la cornetta del telefono accanto al televisore, telecronaca diretta. Uno strazio di sigarette e vai, e dai, e cazzo! Zero a zero, la Coppa è dell’Ajax. Una delle giornate più dolorose di GPO che, quando suo figlio Timothy, assunto da la Repubblica, verrà destinato agli spogliatoi della Juventus, dirà è stata «una tragedia in famiglia».

Giovedì 14 maggio, quarta regata. Di curioso c’è che “America al cubo” ha due timonieri, il rossiccio e lentigginoso Dave Dellenbaugh del Connecticut, esperto delle partenze, e il massiccio Buddy Melges del Wisconsin che va forte su ogni lato. Ma c’è anche Bill Koch che pretende il timone per i finali tranquilli. Non è tranquilla questa regata per gli americani. Il gennaker di “America al cubo”, alla virata dell’ultimo lasco (ho imparato, ho imparato), si impiglia nella puleggia e la barca si imballa. Cayard sul Moro vira in continuazione. Possiamo farcela. No, niente. “America al cubo” vince con 1’04” e siamo 3-1 per gli statunitensi.

A San Diego gliene frega poco dell’America’s Cup. Ha i suoi problemi. La California è in crisi, recessione, disoccupazione. A San Diego va male l’industria aeronavale, la base dei Marines s’è ridotta. Le 40mila stanze degli alberghi sono tutte occupate, ma solo perché ci sono quattro importanti congressi. Il sindaco, miss Maureen O’Connor, una bionda sempre un po’ nervosa, affascinante a suo modo, una gran Barbie con capello cotonato, pare si sia invaghita di Gardini, il bel Raul. Tiro giù un pezzo di 90 righe, intermezzo gossip fra drizzisti, randisti, prodieri, tattici, navigatori, tutto troppo al maschile questa America’s Cup, compresa la non molto attraente Dawn Riley del Michigan sulla barca statunitense, un biondone di donna.

Sabato 16 maggio, quinta regata. Se gli americani vanno sul 4-1 sulle sette regate previste si prendono la Coppa, una cosina d’argento, alta 70 centimetri, come una caraffa, cesellata dal signor George Garrards, orafo della regina Vittoria, al tempo della prima sfida all’Isola di Wight. Cayard parte bene, ma al primo lato di poppa la stecca in alto della randa cede in tre punti. “America al cubo” vince con un vantaggio di 44”. Il Moro ha un fantastico scafo rosso. Mi dice Marincovich: «Mai una barca rossa ha vinto l’America’s Cup». Però la nostra barca, 110 miliardi investiti in strambate e laschi, ha fatto simpatia.

Si chiudono le giornate al Centro stampa e sfumano le apparizioni di Monica Paolozzi, irresistibilmente cotta di sole, un tipo californiano, gambe sportive, occhi azzurri, capello biondo, pantaloncini sexy. Saluto Lisa Gosselin del Connecticut, direttrice di Yachting Magazine, mi piaceva, non siamo mai andati a cena, avevo pensato al lume di candela. Nei giorni di riposo mi son fatta una bella abbronzatura sulla spiaggia di Chula Vista, troppo lunghe e minacciose le onde del Pacifico per fare il bagno.

Torno a Napoli. Nonno mi fa: «Beh, hai fatto questa lunga vacanza a San Diego, ora vai a lavorare in redazione. Tieniti pronto per gli Europei di calcio in Svezia a giugno». M’aspettavo di meglio.


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