Franco Fortissimo

Quando gira a sinistra, lasciandosi dietro gli ultimi metri di pavé artificiale costruito prima del Velodromo, e mette la ruota sulla pista liscia, ha davanti il giro e mezzo che porta nella leggenda e il pensiero è solo rivolto a godersi il boato della folla. È il 12 aprile del ‘9
Franco Fortissimo
Pietro Cabras
9 min

Dammi un cambio, gli urla il Bàllero, voltando impercettibilmente la testa indietro. Mons-en-Pévèle, si chiama questo posto sperduto nelle mappe ma inciso a fuoco nella storia della Parigi-Roubaix che il 12 aprile 1998 recita il 96° appuntamento con il rito più sconcio e fantastico del ciclismo. «Non li conosco tutti, i settori, ma so bene come sono fatti e come se ne esce» ci aveva raccontato Franco Ballerini il giorno prima, sdraiato sul lettino dei massaggi in un asettico albergo nel profondo Nord della Francia, dipartimento dell’Oise, luogo strategico dove passavano i romani per le loro scorribande e lo avevano chiamato Compendium, scorciatoia, nei secoli diventato Compiégne. Ma qui non ci sono scorciatoie, il pavé ti chiede dazio tratto dopo tratto, non fa sconti a nessuno. Sotto le mani del masseur, confidente e amico, il Bàllero aveva raccontato il suo pavé, «quando ci salii la prima volta, ero ragazzo alla Malvor. Dopo due giorni mi accorsi che se sull’asfalto perdevo terreno, quando arrivavano le pietre rimontavo tutti». È dote, talento, «è un’attitudine, è riuscire a fare naturalmente quello che per gli altri è complicato». E a lui è riuscito tutto naturale finora. Si è lasciato alle spalle, cinquanta chilometri prima, la tetra e mitica Foresta di Arenberg e il dolore di mezzo gruppo, Johan Museeuw si è spaccato la rotula ed è volato in ospedale, Tafi e Peeters si sono arrotati per colpa di uno spettatore, lui stesso ha spaccato una ruota, ma l’esperienza gli ha detto che non ci si può fermare tra le betulle annerite dal tempo e dalla polvere, perché ad Arenberg non la vinci la Roubaix, ma di sicuro puoi perderla.

Ha pedalato, leggero come solo lui sa essere, anche con la ruota rotta che scodava sulle pietre, con sublime esercizio di equilibrismo, ma si era fermato a cambiarla solo quando era uscito dal lungo tunnel nero a rivedere le nuvole e l’asfalto, e puntuale era arrivata l’ammiraglia e il meccanico, Andrea Nieri, per un pit stop velocissimo ed efficace. «Poteva esserci il terremoto, io sarei rimasto in piedi» dirà poche ore dopo. È lui ormai la punta acuminata della Mapei, è lui che dopo Arenberg è partito a riprendere i disperati fuggitivi della mattina, che ha chiesto a Tom Steels, eccellente velocista, di dare le ultime trenate terribili sull’asfalto, prima dei settori di pavé dove non ce n’è per nessuno, anche se Patrick Lefevere, suo tecnico nella multiforme Mapei si era lasciato scappare alla vigilia che «Ballerini non sa vincere una corsa quando deve vincerla», e non si sa se era un rigurgito acido o il modo inelegante per caricarlo di più. Ma stavolta non ce n’è bisogno, a 34 anni

Franco sa come si vince, come si perde, come si fa tutto bene e tutto male, insomma. Sessanta alla fine, quando si lascia alle spalle 300 metri sconnessi di Rue du Cimitière ed entra nel tratto di Orchies, dove da oltre un secolo la Roubaix fa la conta dei sopravvissuti: qui volava via Moser venti anni prima mentre Franco lo guardava incantato alla Tv e si diceva «pensa come sarebbe bello vincere lassù». Entra a cinquanta all’ora sui settori numerati al contrario, danza tra gli spigoli, le gobbe di pietra, tra la polvere che è diventata fango dopo giorni di pioggia, e qui il fango ti si aggrappa dappertutto ti porta adosso chili che non vorresti mentre spingi la bici: non puoi nemmeno rifugiarti di lato, pedalare di fianco a queste gobbe d’asino, perché i sentieri sono ormai rigagnoli colmi d’acqua, trappole su cui anche la moto della Tv è finita per tre volte, ruote all’aria. «Il pavé devi aggredirlo, non puoi andarci sopra piano, se no ti caccia indietro» ragionava poche ore prima, ora è lui che detta legge, quando vede Gouvenou e Dierckxsens in fondo, prima dell’ennesima curva a gomito. «A tutta, Tom, a tutta» chiede a Steels ed è l’ultimo favore. Cinquanta alla fine quando il francese cede, sfinito, e Franco piomba su Ludo Diercksens, fiammingo di Geel, il paese dove nei secoli indietro accoglievano con grande cuore i matti che nelle piatte Fiandre non voleva nessuno. Hanno la stessa età, il toscano e il belga arrivato tardi al professionismo, e si sono conquistati tutto da soli. «Dammi un cambio» gli soffia Franco, mentre dall’ammiraglia c’è Fabrizio Fabbri, che visse una Roubaix con Moser, a ricordargli ciò che il Bàllero sa bene: «Fallo tirare sull’asfalto, poi mollalo». Eh, ci convive da cinque anni, con quell’incubo, Franco, quando non aveva avuto la crudeltà di staccare Gilbert Duclos Lassalle, antica volpe francese, incollato alla sua ruota come una carogna: era il 1993 e lo aveva trascinato fino al Velodromo, convinto che lo avrebbe schiantato agevolmente. «Anche gli asini quando prendono una buca, la seconda volta non ci cadono più» avrebbe spiegato dopo. Sulla pista bianca di Roubaix quello lo aveva beffato con una volata lunga, e Franco, lo sappiamo, non è mai stato un fulmine in volata, come il figlio Gianmarco, cinque anni, ogni tanto involontariamente gli ricorda: «Babbo, tu vinci poco perché non fai le volate come Cipollini». Sapessi come è difficile, gli aveva risposto lui. E Fabbri, dal finestrino, non ha bisogno di dirgli altro se non ricordargli appunto che in Tv lo guarda l’Italia, sono tutti a casa in questa domenica di Pasqua, lo spinge da casa anche Gianmarco: «Vai, Franco, che c’è il piccolo leone che ti vede».

Quando è partito, il figlio gli ha dato un piccolo portachiavi che Franco ha in tasca, e ora a casa in pèrovincia di Pistoia sta disegnando un cartellone da appendere sulla porta di casa: «Viva il babbo». Ma Dierckxsens non è Duclos, Ballerini ha cinque anni di più e una Roubaix già vinta, nel 1995, quando se n’era andato a 32 chilometri dalla fine ed era entrato da solo a prendersi l’ovazione del Velodromo. «I francesi ti fanno sentire un eroe se arrivi primo e anche se arrivi ultimo» aveva spiegato, e non c’è bisogno di dire quale opzione sia più esaltante. Diercksens finisce la sua tirata troppo breve, ha esaurito le energie sulle stradine impastate di fango e di polvere di carbone che il vento gelido trasporta dalla vetta delle piramidi nere che disegnano l’orizzonte, detriti di carbone, ricordi di un’era neppure lontana, quando sotto terra scendevano anche gli emigrati italiani. E Franco sotto terra ci si era sentito davvero, cinque anni prima, «il mio sbaglio - aveva detto rabbioso dopo la grande beffa con Duclos - aver fatto il corridore, qui non tornerò mai più». Non serve nemmeno un attacco per mollare, il belga rimane ingobbito sulla bici, spigoloso come il suo cognome, non ci pensa proprio a seguire il Bàllero che se ne va, agile come solo lui sa essere quassù, a centrare una delle fughe più ampie della storia della corsa: quarantacinque chilometri da solo, come aveva fatto Fausto Coppi nel 1950, più di lui soltanto il vecchio Andrei Tchmil, allora furono 62 quando dal cielo era venuto giù di tutto. Bàllero fila che è in piacere, il vantaggio aumenta dopo ogni settore, «quest’inferno è il mio paradiso» racconterà quando il sindaco di Roubaix lo chiamerà sul palco nel gran salone della festa. «Ballerini a fait l’avion» scrivono i francesi, Ballerini ha fatto l’aeroplano. «Una bella pazzia» la descriverà lui, e negli ultimi chilometri ripensa a tutto, alla rabbia di tante corse che non erano andate come voleva, alle fughe tentate e mai arrivate, come nel 1989 quando in Giappone era in testa al Mondiale e dietro avevano tirato i nostri, non c’era da fidarsi del Ballero in volata e alla fine era scoppiato un casino. Quando gira a sinistra, lasciandosi alle spalle gli ultimi metri di pavé artificiale costruito prima del Velodromo, e mette la ruota sulla pista liscia, ha davanti il giro e mezzo che porta nella leggenda e il pensiero è solo rivolto a godersi il boato della folla che dalle tribune gli tributa il trionfo.

Mezzo giro per passare la prima volta sotto il traguardo, non c’è più l’ombra lontana di Duclos a oscurargli il cielo. Un altro giro tutto solo, stavolta non deve affrontare volate con il cuore in gola, il Bàllero va a riprendersi tutto con gli interessi, le delusioni, la rabbia, le cadute, gli anni a vuoto, le critiche «perché dicono che vinco poco, ma un po’ di spettacolo lo regalo». Un giro a sentire quel brivido sulla pelle quando lo speaker urla il suo nome con l’accento finale sulla i, gli altri arriveranno quattro minuti più tardi, Andrea Tafi secondo a completare la prima doppietta italiana. La gioia di raccontarsi quando esce dal salone grigio delle docce, libero delle tensioni e del fango, e noi siamo lì ad aspettarlo, con tutto il tempo del mondo perché è Pasqua e i giornali sono chiusi e non dobbiamo andar di fretta: «Quando smetterò, difficilmente proverò le stesse sensazioni, penso che deve essere come si sente Pantani quando arriva sull’Alpe d’Huez. Io un campione? No, non bastano nemmeno due Roubaix. Ma un buon corridore, questo sì». 


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