Parigi o carissima

Francesca ha appena vinto il Roland Garros. Si rotola sulla terra rossa del Centrale, la bacia, la mangia. Si rotola per sporcarsi il bianco del completino, per sentire sulla pelle la terra del campo. È una gestualità pagana che le permette di vivere questa avventura sino in fondo. È stato un piacere vederla giocare
Dario Torromeo
10 min

L ei gioca sempre con passione. «Mi impegno come se dovessi conquistare un amore».

Ogni punto guadagnato diventa un abbraccio, un bacio, una carezza.

Lotta perché ha un assoluto bisogno di sentirsi amata.

«È il dono più grande della vita».

E adesso eccola qui a spiegare agli altri quello che tante volte mi ha raccontato con un mezzo sorriso che faticavo a interpretare, non riuscivo a capire se fosse un segnale di allegria o di tristezza. Francesca Schiavone ha fatto innamorare Parigi. Ha appena vinto il Roland Garros. Si rotola sulla terra rossa del Centrale, la bacia, la mangia. Si rotola per sporcarsi il bianco del completino, per sentire sulla pelle la terra del campo. È una gestualità pagana che le permette di vivere questa avventura sino in fondo.

È stato un piacere vederla giocare.

La Schiavo pratica un tennis fatto di tocchi ormai dimenticati da gran parte della truppa. Un rovescio a una mano pieno di istinto e naturalezza; smorzate, variazioni di ritmo, top spin esasperati. Una tattica diversa per ogni partita. E quando sta sotto, non si arrende. Mette assieme le armi di un tennis pieno di risorse e riprende a lottare. Ma per esprimersi al meglio, per volare, deve sentirsi circondata da sentimenti nobili. È per questo che non nasconde nulla al pubblico. È solare. Si esprime con la faccia, la gestualità, il gioco, l’intero corpo.

Gioia, delusione, rabbia, felicità. Vuole che tutti siano partecipi dei sentimenti che prova. Sa che non deve nascondere nulla, perché prima o poi arriverà il momento di chiedere aiuto. Come Muhammad Ali nei suoi combattimenti, la Schiavo è una che succhia energia a chi è lì per vederla giocare. Dagli applausi, dalle urla, dagli incitamenti prende la forza per andare avanti, per ricominciare.

Le capita a volte, come è accaduto anche in questa occasione, di parlare con se stessa nel bel mezzo di una partita. E quando le cose si complicano, l’interlocutore diventa addirittura un essere umano con tanto di nome e cognome. Allora alza lo sguardo verso la tribuna, lo fi ssa dopo un colpo sbagliato, prima di tornare alla battuta, e gli parla.

«Da quando sono in campo, non te ne va bene una. Vuoi giocare tu al posto mio?»

E Corrado Barazzutti, è lui l’altro protagonista della commedia, abbassa le sopracciglia, stringe le labbra e con il pugno chiuso le fa cenno di osare. Lo sanno entrambi, a fine partita ci saranno sempre e solo abbracci.

Francy, come la chiama Samantha Stosur, la rivale della finale, stavolta è stata perfetta.

Le ha tolto respiro, spazio, possibilità di esprimersi all’altra. L’ha aggredita giocando solido, servendo assai bene e rispondendo meglio.

Questo Trofeo la Schiavone sognava da quando, a sei anni, andava assieme a papà Franco a raschiare il ghiaccio dai campi in cemento dell’Accademia Inter a Milano, per poi potersi allenare. Ce l’aveva in testa da una vita e in una calda domenica di giugno l’ha portato a casa. Ha cambiato la sua storia e quella del nostro tennis. È la prima italiana a vincere un torneo dello Slam.

Due settimane piene di magia, una finale perfetta. Ha giocato a rete con la classe di una campionessa autentica, ha distrutto la Stosur, atleta dal dritto devastante e dal servizio pesante. L’australiana è stata dominata nella partita a scacchi che la Schiavo le ha imposto. La milanese ha giocato d’anticipo, anziché difendersi è andata ad attaccare.

Fallo vedere ancora una volta quel fantastico rovescio a una mano Francesca, mostralo al mondo.

Il popolo delle bimani rappresenta il 90% del tennis femminile, quel rovescio è diventato, per l’intero circuito, messaggero di sventura. In un mondo di picchiatrici, di gente che usa la racchetta come mezzo per offendere, lei con quell’attrezzo ricama traiettorie magiche, insegue nuovi orizzonti. Perché è così che interpreta il mestiere.

Sulla terra rossa si esprime al meglio, su questa superficie ha tempo per pensare, spazio per far valere il talento contro la potenza, capacità di gestire tatticamente la partita senza rimanere ostaggio del servizio.

Il suo è un tennis fisico e di tocco. Con il rovescio a una mano, le volée vellutate, i pallonetti imprendibili, le smorzate assassine. Ma anche con le rincorse su palle disperate, i recuperi miracolosi, la lotta sino all’ultimo colpo. È un modo di giocare che l’ha portata in alto, da lunedì sarà numero 4 del mondo.

È la più grande giocatrice italiana di sempre.

Stoppa il giudizio sulla bocca di chi l’ha appena pronunciato. «Non faccio questo sport per impormi su qualcuno. Lo faccio perché lo amo».

Se l’arte del frullone fosse materia di studio, Francesca Schiavone sarebbe professoressa emerita. In quei topponi spediti negli angoli più lontani del campo e destinati a fare impazzire le rivali, lei è specialista assoluta. Nel tennis di questa piccolina, comunque dotata di un fascio di muscoli scattanti, c’è la passione di chi cerca la strada migliore da percorrere frugando tra i gesti del passato, tra i ricordi. Lei così minuta, non potrebbe ingaggiare lotte selvagge con il popolo delle picchiatrici e allora usa le armi di una volta. Poi aggiunge la grinta. E vince.

Quarto match point nelle sue mani.

Stecca, l’australiana. Pallina in cielo, Schiavone distesa sulla terra rossa del Centrale. La bacia, poi vola in tribuna. Abbraccia amici, parenti, dirigenti, coach Corrado Barazzutti. Prende in braccio Riccardo, il bel ragazzino biondo fi glio della manager Federica Ruzzenente.

Tutti attorno piangono, solo lei continua a ridere. Un sorriso che si allarga, le riempie il volto di una felicità straripante.

Le passano un telefonino, dall’altra parte c’è Giorgio Napolitano, il Presidente della Repubblica.

Complimenti, lei fa onore all’Italia.

Poi, un’altra telefonata. È Adriano Panatta.

Brava, sei stata grande.

Tutti vogliono abbracciarla. Urlano di gioia le migliaia di italiani che hanno riempito il Centrale. In questo sport non siamo abituati ad essere felici. La premia Mary Pierce. Le fanno i complimenti John McEnroe e Martina Navratilova. Il presidente della Federtennis, Angelo Binaghi, mi chiede se sia proprio vero che abbiamo vinto il Roland Garros o se invece il torneo non cominci domenica prossima.

Mamma Luisita a Milano comincia a preparare le torte, specialità della casa. Francesca bacia i genitori in diretta mondiale. «Mamma, papà, vi amo», sussurra al microfono durante l’intervista sul Centrale. C’è aria di festa attorno a lei. Samantha Stosur se ne sta sola e col capo chino, seduta sulla panchina dove ha coltivato un sogno finito male. La partita senza pecche della Schiavo non poteva che portare a questo risultato. Nessuna scelta sbagliata. Ha indovinato tutti i tempi di attacco, a rete non ha mai fallito. E dire che un paio di volée erano davvero roba complicata. Ha superato anche la zona rossa, quella del nervosismo. Avrebbe potuto farle perdere lucidità, ad esempio quando è andata a incattivirsi per una decisione sbagliata del giudice di linea e dell’arbitro. Per fortuna, non è successo.

Si mette le mani sul viso la Schiavo, poi le mostra al pubblico. Ripete due, tre, dieci volte la stessa frase.

«Ma cosa ho fatto? Cosa ho fatto?»

Sul campo è da applausi. Regala emozioni, lampi di classe assoluta. Fuori dal rettangolo di gioco fatica di più.

Ha problemi a relazionarsi con i giornalisti, ad esempio. Qualche tempo fa mi ha detto. «Ho paura di essere fraintesa, di passare per quella che non sono, di rompere il filo che mi lega agli altri. Io ho bisogno di dividere le mie gioie, non poterlo fare mi darebbe un grande senso di angoscia».

Si sente sicura solo all’interno del clan che le fa da argine contro il resto del mondo.

«Loro mi fanno sentire accettata, rispettata, apprezzata per quello che sono. Anche con i miei difetti. In questa avventura hanno investito tempo e passioni». Non ce la fa proprio a fidarsi del tutto.

Scriveva poesie, ha smesso. Scriveva un diario, non l’ha fatto leggere a nessuno.

«Mi sono fermata. Tutto è troppo contorto. Scrivo quando sento qualcosa di importante nascere dentro di me. O forse me lo immagino. Non le faccio leggere perché ho paura che dai miei versi si possa capire cosa provo, non mi piace mettere a nudo la mia anima davanti a chiunque».

Ha spezzato l’incantesimo, una tennista italiana alza al cielo il trofeo del Roland Garros. Sono felice anch’io.

Una volta mi ha raccontato che al mattino appena sveglia le piace ascoltare Mozart e che niente come una corsa sulla moto riesce a regalare una sensazione di libertà. Mi è bastato.

Francesca è la mia preferita. Il suo è un tennis caldo, musicale. Mi ricorda John Coltrane. Certo il sassofono dell’uomo che ci ha regalato My favorite things ha note di una magia più alta, ma non a caso appena cito la milanese sono proprio le parole del jazzista a tornarmi alla mente.

«Ho vissuto per molto tempo nell’oscurità perché mi accontentavo di suonare quello che ci si aspettava da me, senza cercare di aggiungerci qualcosa di mio».

L’adagiarsi nel mare della tranquillità per paura di aff rontare nuovi percorsi è il nemico peggiore per chi ha grande talento, ma non altrettanto coraggio. Per fortuna, di coraggio Francesca Schiavone ne ha in abbondanza. È la notte del 5 giugno 2010. Mentre torno in albergo, chissà perché mi viene in mente una frase di Gastone Moschin, l’architetto Rambaldo Melandri in “Amici miei”.

Che cosa è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione.

Sembra scritta per lei.

La piccola guerriera talentuosa ci ha appena regalato un’altra magia.


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