Magari il problema fossero i piloti! O magari fosse uno dei due: Leclerc colpevole del botto di domenica scorsa, o Vettel per l’incidente di sette giorni prima. Il guaio invece è molto più vasto, anzi indefinito. Come ha spiegato Binotto: «Di una parte della vettura o di tutta, di progetto, o di metodologia, o di concetto». Forse di tutte queste cose messe assieme. La verità che non si vuol guardare è che la visione pauperistica e autarchica ispirata da Marchionne (lui per primo l’avrebbe corretta con le sue coraggiose strambate, se non fosse purtroppo scomparso anzitempo) non funziona, o almeno: non in Formula 1.
Perché gli altri team volano e la Ferrari no
Una squadra che si priva dei migliori uomini per fare spazio alle seconde e terze linee, sperando nel fiorire del talento nascosto, ha solo una certezza: il segno meno di chi va via. Sicché oggi la Mercedes costruisce un’astronave sotto la guida di James Allison che nel 2016 fu seccamente allontanato dalla Ferrari, e si è presa anche altri fuorusciti da Maranello, mentre la Red Bull cresce con Adrian Newey; mostri sacri contro i quali gli attuali ingegneri della Ferrari, per quanto bravi, non possono molto.
La separazione della carriere in Ferrari
Poi c’è la questione anche più seria della separazione delle carriere: non si può essere team principal e de facto il responsabile del progetto. E’ dura per Binotto pensare a tutto e rispondere a tutti. E come fa a chiedere più budget a sé stesso, e magari a negarselo? Supponiamo ora che il direttore tecnico di fronte a un progetto fallito voglia rassegnare le dimissioni, e queste vadano respinte perché l’uomo merita fiducia: si può star seduti da una parte e dall’altra della scrivania? No, non può funzionare, e infatti non funziona l’ultimo terminale di questa articolata e complessa filiera che è un team di Formula 1: la macchina.