I cinque clamorosi errori che hanno fatto sprofondare la Ferrari

Motori “austriaci” e instabilità, epurazioni e un’organizzazione ipertrofica, passando attraverso le aree grigie del regolamento: così la Rossa è finita nel'oblio
I cinque clamorosi errori che hanno fatto sprofondare la Ferrari© Getty Images
Fulvio Solms
4 min

Aprire gli occhi al lunedì mattina e rendersi conto che non è stato un brutto sogno: la Ferrari è davvero nel Bronx della Formula 1, aggredita in pista dai suoi stessi clienti. Il suo motore – cuore pulsante della macchina nella visione romantica di Enzo Ferrari – è più a suo agio dentro l’Alfa Romeo che in una Rossa, e ciò non in un circuito anomalo ma a Spa che è cartina al tornasole della tecnica. Lì dove per andare forte devono funzionare il telaio, l’aerodinamica e la power unit, il verdetto è stato crudele: Mercedes eccellente, Ferrari pessima. Ma possibile che a Maranello non funzioni quasi più nulla? Possibile e anche logico, perché siamo al rendiconto di errori gravi, anche non recenti. Ne identifichiamo cinque, proponendoli in ordine cronologico.

Delega sui motori

Questo errore affonda le radici in un decennio fa, in piena era-Montezemolo. La squadra si ingrandiva, i costi crescevano (per tutti) e la Ferrari affidò gran parte dello sviluppo agli austriaci della AVL di Graz. Successivamente la collaborazione si rafforzò, fino a diventare una vera delega sulla progettazione di medio-lungo termine. Ecco, se i bibitari di Red Bull potevano affidarsi ad AVL di cui erano effettivamente clienti, quando vincevano con Renault, è sbagliato che lo faccia la Ferrari. I motori di Maranello devono nascere a Maranello, che invece oggi si occupa solo dell’evoluzione delle power unit. Se Ferrari oggi volesse cominciare a disegnare un motore di Formula 1, progettarlo, fabbricarlo, testarlo ed evolverlo, dovrebbe ricostruire una competenza (leggi: un reparto).

Instabilità nel team

Mattia Binotto parla di stabilità e serenità, che in realtà sono evaporate da anni. Lo sciame sismico iniziò con l’ultimissimo Montezemolo, allora convinto che tagliar teste avrebbe dato la scossa giusta. Arrivò poi Sergio Marchionne e fu anche peggio, come ora vedremo: il 2014 è l’anno dei tre team principal (Domenicali-Mattiacci-Arrivabene), e da quel momento in poi il giocattolo non s’è più aggiustato. Cosa significa Simone Resta che nel 2018 passa da Ferrari ad Alfa e un anno dopo torna indietro? Si continua a cambiare e a questo punto è inevitabile che la piramide tecnica debba rafforzarsi. Ma è come toccare il timone di una barca: lo giri e non succede nulla, poi dopo arriva il cambio di direzione. Intendiamo: quando assumi un cervello non puoi disporne subito per via del gardening (periodo di inattività forzata), quindi per ottenerne il massimo devi farlo giocare nel suo ruolo, affiancargli le persone giuste e far assestare il gruppo. Ci vuole tempo. Oggi tra gli ingegneri serpeggia la paura. A proposito: l’ultima riorganizzazione in verticale ha avuto l’effetto di mettere in primissima linea Enrico Cardile, quasi fosse un direttore tecnico. In realtà è solo il prossimo a dover saltare.

Autarchia

L’idea di Marchionne ha creato un danno enorme: mandare via i numeri uno dell’ingegneria per dare spazio alle seconde e terze linee non ha senso in Formula 1, come provano gli stessi super-ingaggi delle star della tecnica. In squadre come la Red Bull (certo meno complesse della Ferrari, ma non meno efficienti) si è fatta addirittura la scelta di porre Adrian Newey al centro di tutto e montargli attorno la squadra. Nel 2016 fu sbagliatissimo mandare via James Allison (oggi dt Mercedes), un indiscutibile cervello in Formula 1, ma anche un carattere forte entrato presto in rotta di collisione con un tipo non meno roccioso e meno importante di lui: lo stesso Marchionne. Da quell’errore madornale non si è imparato.

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