Niente sfugge a Norma. “Hai l’occhio di falco” le dicono le compagne di squadra. Lei sa che è vero. Anche per questo è la capitana, non si distrae da nessuna né in campo né fuori. Nello spogliatoio in festa, per la più difficile delle vittorie, tra canti, schizzi d’acqua e ragazze finite sotto la doccia vestite, Norma scorge Betti in disparte, seduta sulla panca, i gomiti ficcati nelle ginocchia e le mani a tirare i capelli. Sul borsone, aperto in mezzo alle gambe , c’è il telefono ancora illuminato su una chat di whatsapp. Norma si fa largo, afferrando spintoni e qualche colpo in testa, tra le ragazze saltellanti, manco avessero vinto il campionato. Raggiunge l’amica e si accoscia ai suoi piedi. “Ehi Betti, che succede?” Benedetta Iacovone, detta appunto Betti, è la più forte: l’ultima schiacciata, ancora calda, che ha chiuso un match tiratissimo al tie-break, è stata l’ennesima prova della differenza che fa in campo. Betti non risponde, ma con la testa indica il cellulare. Norma lo prende e legge. “Vedo che porti i pantaloni lunghi, brava. Solo io posso guardare e toccare il tuo culo. Bella la schiacciata dell’ultimo punto... Ti seguo e ti amo sempre. Presto verrò a prenderti”. Se a Norma manca il respiro, figurarsi a Betti. “Sei qui, bastardo!”, urla la capitana e di botto un silenzio tombale sostituisce il frastuono dell’eccitazione.
Una top player in B
A piccoli passi le ragazze si avvicinano alla milanese, così la chiamano, di cui conoscono poco. E’ una tipa chiusa, riservata, solitaria, tanto da risultare antipatica. Nessuna si è mai chiesta perché abbia lasciato la Serie A e la Nazionale per una Serie B. La Betti martella punti su punti, ace su ace e questo è bastato per accoglierla nel gruppo. Solo Norma, con delicatezza, si è preoccupata di andare oltre l’abilità e superare il muro della diffidenza. Sa che è cresciuta nel club più titolato d’Italia a Milano, dove era arrivata adolescente, lasciando la sua famiglia e la Basilicata. A diciotto anni era andata a vivere col fidanzato, un ragazzo “tanto a modo”, diceva la mamma di lei. La storia però era finita male. Tanto male che Betti aveva deciso di andarsene da Milano, per allontanarsi dall'uomo rivelatosi molesto. Norma le accarezza la schiena e la invita a raccontare tutto a tutte. E Betti finalmente si convince che non ci si salva da sole.
La fuga
“Sono scappata dalla morte. Volevo scomparire e pensavo di avercela fatta. Stasera ho scoperto invece che lui mi segue, mi spia, non ha mai smesso di farlo. Era il mio ragazzo ed è diventato la mia persecuzione. Il suo delirio è esploso con le mie convocazioni in Nazionale, le trasferte europee, dove non poteva seguirmi, e infine con l’arrivo del nuovo coach. Le scenate di gelosia erano quotidiane. Nemmeno facevo più la doccia al campo: finiti allenamenti o partite, schizzavo via. Lui mi aspettava col cronometro fuori della palestra. Un minuto di ritardo valeva uno schiaffo o un morso o un calcio. “Ti spezzo le gambe se ti attardi ancora con quel porco”. Il porco era l’allenatore. Odiava tutto ciò che mi distraeva da lui, la pallavolo soprattutto. Ha provato in tutti i modi a farmi smettere. Ma è l'unica cosa che so fare, dove riesco, dove mi sento unica. E forse proprio l’amore che ho per il volley mi ha salvato. Non l'ho tradito, l’ho difeso, perché a difendere me stessa viceversa non sono capace. “Questo è uno sport da zoccole, mi diceva. Oppure “Stai sempre col culo di fuori, copriti troia”. Ecco perché gioco in leggings. Ancora adesso. Una volta qui ho provato a mettere i pantaloncini, ma ho avvertito disagio, sentivo i suoi occhi addosso. Un fantasma che mi mette paura. Quando ho provato a lasciarlo sono iniziate le minacce. E dopo le minacce la violenza. Ho fatto marcia indietro, sono rimasta con lui, ho creduto a quel tipo di amore che sbandierava. Ma avevo solo paura. Ed è cominciata la mia lenta morte. Mi screditava dicendo che non valevo niente, che il posto in squadra lo avevo solo perché ero bona, ruffiana e puttana. Mi picchiava col cucchiaio di legno dove però non si potessero vedere i segni: avevo le gambe piene di lividi. Una volta, prima di una trasferta europea, mi storse il braccio per impedirmi di partire. Al coach dissi che ero caduta dalle scale. E non partii. Nessuno sospettava niente. Tutti credevano alle mie bugie”. Betti si ferma, tira su col naso. Una compagna piange con lei. Un’altra le porge da bere.
L'odio cala la maschera
Riprende: “Quindi è stata la volta dei pedinamenti e degli appostamenti. Ansia e panico hanno compromesso il mio rendimento in campo. Solo a quel punto mi sono decisa a raccontare ogni cosa in società. E quando gli ho detto che ormai tutti sapevano che cosa mi faceva e se mi avesse torto un capello lo avrebbero spedito in prigione, la reazione è stata pesante, tra insulti e minacce: “Vigliacca, puttana da strada. Non vali niente. Ma, sappi, se non puoi essere mia non sarai di nessun altro”. Dopo quelle parole mostruose, a cui però aggiungeva sempre un ti amo, mi ha stritolato la faccia, tirandomi a sé e baciandomi di forza. Non rispondendo al bacio, mi tirava per i capelli e mi spremeva i capezzoli, ancora sento il dolore. “Baciami o ti spezzo le braccia e hai finito di giocare per sempre. Baciami, ho detto baciami!”. Sembrava il demonio, con gli occhi di fuori dalla rabbia. Altro che amore, quello era odio puro. L'odio buca la maschera dell'amore. Allora, terrorizzata, l’ho baciato per calmarlo, l’indomani – mi giurai – l'avrei denunciato. L’ho fatto, ma è servito a poco. Anche se gli era proibito di avvicinarsi, avvertivo la sua presenza a un passo da me o avevo l’impressione di vederlo appostato ovunque passassi. Non ero mai tranquilla. Sono infatti iniziate le telefonate anonime, a ogni ora del giorno e della notte. Le mie prestazioni calavano. Su consiglio del club e delle amiche, ho deciso di andare via e mi sono rifugiata qui, in Veneto, ridimensionando progetti, sogni e ambizioni. Non ve ne ho parlato mai perché parlarne è come ammettere di non essermene liberata”. Betti ora trema di freddo e di paura. Le compagne la coprono con il loro abbraccio.
L'ultima sfida
Le ragazze finalmente sciamano festose e felici dalla palestra. Fuori trovano ancora i tifosi ad aspettarle per qualche autografo e i soliti selfie. Ma Norma vuole fare in fretta, comunica ad alta voce il locale dove andare a brindare e tutte immediatamente si dileguano. Quando anche Betti esce, c’è buio e silenzio. E’ rimasta da sola. Si tira su il cappuccio e guardinga si incammina verso l’auto. Appena dentro, non fa in tempo ad accendere il motore che una corda da dietro le serra la gola, obbligandola a schiacciarsi sul sedile per non rimanere strozzata.
“Amore... Quanto tempo, vero? Ti sono mancato? Tu sì. Sono venuto a prenderti per portarti via. Ti avevo avvertito: o con me o con nessuno”, sussurra una voce terribile e nota.
“Non sto con nessuno, te lo giuro. Ti prego, non uccidermi. Farò quello che vuoi”, lo implora Betti.
“Troppo tardi. Sono stato tanto male, sai? E non me lo merito”.
“Lasciami andare, ti supplico”.
“Certo che ti lascio ma... morire, come tu hai fatto morire me”.
“Verranno subito a prenderti, sanno tutti chi sei e cosa mi fai”.
“Povera illusa. Non importa a nessuno di te. Vedi, ti hanno lasciato da sola... Ci sono io però, non sei contenta?”
Betti sente la punta di un coltello sul fianco, il cuore perde i battiti, è andata male e smette definitivamente di credere alla strategia di salvezza. A speranza finita e piano fallito, però, ecco che le sirene rompono il silenzio e le luci blu delle volanti illuminano il buio pesto. I poliziotti scendono, accerchiano la macchina e puntano le pistole, intimando all’uomo di uscire con le mani in alto. L’ex fidanzato molla la presa e alza le braccia, la corda cade, Betti si accascia sul volante, sfinita. Respira senza affanno ora, rialza la testa, interrompe la registrazione sullo smartphone, guarda fuori del finestrino, il cuore ritrova i battiti, e vede la sua squadra schierata, come da schema provato nello spogliatoio in collegamento telefonico col 112. Betti non si è salvata da sola. Betti sorride. Betti non muore più.