La corsa-rito oltre il tempo e le regole

La tecnologia avanza ma Le Mans è rimasta fedele al suo spirito
La corsa-rito oltre il tempo e le regole© Getty Images
Marco Evangelisti
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I francesi raccontano di avere inventato tutto, anche un libro che parla di tutto, l’Enciclopedia. Meglio non discutere. Questa però l’hanno inventata davvero: la 24 Ore di Le Mans, figlia di un’altra cosa che hanno inventato loro, le gare automobilistiche. Lasciamoli litigare in merito con gli inglesi, tanto in Italia hanno in seguito scoperto come si corre e in Germania come si vince. 

La 24 Ore di Le Mans si può lasciare a coloro ai quali appartiene e ci sembra abbastanza. Più che una corsa è una pianta rampicante avvinghiata alla storia. Alla storia breve del breve secolo ventesimo, poi striscia oltre. Parte dal 1923 e non si ferma mai se non quando la storia si spezza, quando gli scioperi bloccano il Paese, quando soffia il vento acido della guerra. In tutte le altre occasioni, si corre. E si corre senza limiti, con macchine scolpite a forma di siluro o di scorpione, con aerodinamica fine o motori che arrivano a otto litri o entrambe le cose. Con i fari che bruciano materiali scovati in fondo alla tavola periodica ma che vengono all’occorrenza lasciati spenti in maniera che di notte, nel fondo della foresta, chi sta davanti non s’accorga di chi sopraggiunge. 

Litigi. A Le Mans i francesi avevano organizzato nel 1906 quello che viene considerato il primo Gran Premio della storia dell’automobilismo, distinto così dai tanti piccoli premi locali, interregionali e cittadini che mentre in Francia s’inventava altrove si disputavano. Neppure vent’anni dopo l’automobilismo era diventato sport di lusso con l’anima popolare, improvvisato nelle stalle trasformate in garage, e serviva un punto cardinale per tanto movimento. Nella Sarthe, precisamente a Le Mans, c’erano le mura romane e là vicino strade larghe, la campagna con la sua luce, la foresta con la sua penombra. La fanno, se la vincono con André Lagache e René Leonard, ma poi arriva la Bentley, appena messa su in Inghilterra. Francesi e inglesi cominciano a litigarsi la corsa come qualsiasi altra cosa dai tempi di Agincourt. O anche da molto prima.

Cominciano sempre così le storie. Poi si presentano gli altri, le Ferrari che il Drake preferiva vedere far parata in queste gare sulla lunga distanza che in Formula 1, le Mercedes, prima ancora le Alfa Romeo, in seguito le Jaguar. Tutti coloro che fabbricano automobili, per gli impiegati, per i principi o per gli attori. La 24 Ore era quanto di più simile all’esplorazione di una terra incognita si potesse trovare senza accettare ampie probabilità di finire sbranati. Si correvano rischi diversi, naturalmente. Nel 1955 Pierre Levegh disintegrò la sua Mercedes, se stesso, 83 spettatori nell’incidente più grave nella storia dello sport motoristico. I tedeschi abbandonarono le corse, la Svizzera proibì le gare. Tutto conoscevano Levegh: tre anni prima si era convinto di poter vincere senza fare squadra, guidando da solo per tutto il giorno e la notte, e c’era quasi riuscito quando la stanchezza gli sfilacciò le dita e il braccio. Sbagliò marcia, uscì di strada. 

Alba. L’hanno fatta cambiare per amore e per forza. Si partiva con le macchine da una parte e i piloti dall’altra finché nel 1969 mentre tutti correvano Jacky Ickx passeggiò placido fino alla sua Ford, si allacciò con calma le cinture di sicurezza, accelerò per ultimo e arrivò primo. Fegati ingrossati alla Porsche, dove avevano spostato a sinistra l’accensione per facilitare ai piloti l’avvio volante. L’accensione delle Porsche è ancora lì ed è lì anche la 24 Ore benché il circuito sia stato addomesticato e per qualcuno narcotizzato. Cominciarono a introdurre varianti perché sul rettilineo di Mulsanne ci si avvicinava ai 400 all’ora. Loro torcevano il tracciato, le macchine si adattavano e nel 1988 Roger Dorchy toccò i 405 su una Peugeot. Qui sta il nerbo di Le Mans: la corsa si ammala della stessa sindrome che colpisce il resto dell’automobilismo, la tecnologia sempre più vasta, le scatole del regolamento sempre più strette, i motori attenuati, il diesel, la febbre ecologica, ma il richiamo non si disperde, la notte non si fa mai buia. Ultimamente ha dominato l’Audi, la Porsche lo scorso anno ha portato a 17 il suo record di successi, Tom Kristensen ne ha vinte più di chiunque altro, 9. Lucien Bianchi, figlio di un meccanico e capostipite di una famiglia segnata, un anno arrivò primo e l’anno dopo, nel 1969, andò a fuoco. Steve McQueen ha girato un film mentre intorno correvano davvero, Paul Newman e di recente Patrick Dempsey invece di recitare hanno guidato e non sono neanche andati piano, Brad Pitt quest’anno fa il mossiere. Vanno avanti come se il mondo fosse sempre lo stesso, aggirando i boschi antichi, celebrando l’estate. Sotto il velo del rito c’è la corsa, con i suoi odori e i suoi terrori, il suo giorno, la sua notte, la sua alba e il suo traguardo che interrompe la paura, riapre l’attesa. 


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