Maggiolino: la storia del Volkswagen Beetle

Voluto da Hitler per riprendere il sogno americano di Henry Ford, ma prodotto in larga scala solo al termine della seconda guerra mondiale, sotto il controllo del rettorato inglese. Il Maggiolino Volkswagen è diventato in breve tempo una vera e propria icona, una delle auto più riconosciute al mondo. Una grande carriera, quella che finisce proprio oggi, 10 luglio 2019
Maggiolino: la storia del Volkswagen Beetle
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Ventuno milioni e mezzo di esemplari venduti in 65 anni ininterrotti di produzione, quarta auto più venduta al mondo e una delle 5 auto più influenti del secolo scorso: la Volkswagen Beetle è stata la prima auto planetaria e ha influenzato usi e costumi di milioni di persone, fino a diventare un’icona di stile riconoscibile in tutto il mondo.

Oggi, 10 luglio, finisce la storia del Maggiolino: una delle icone del ‘900 ci dice addio con l’ultimo esemplare uscito dalla catena di montaggio della fabbrica messicana di Puebla, in Messico, dove veniva prodotto. L’auto verrà messa in un museo, per continuare a raccontare la sua storia a chi vorrà andare a visitarla.

Un successo del genere ha bisogno di essere spiegato, ma per riuscirci bisogna tornare agli inizi del 1900 per conoscere gli attori che hanno preso parte all’inizio della sua incredibile storia.

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Il mito Americano 

Tra il 1908 e il 1927 negli Stati Uniti sono state prodotte più di 15 milioni di automobili modello Ford T (eletta nel 1999 auto del secolo), iniziando a realizzare il sogno di Henry Ford di dare la possibilità a ogni famiglia americana di avere un’automobile. La produzione automobilistica (questa è la vera rivoluzione) è uscita dalle officine ed è entrata nelle catene di montaggio delle grandi fabbriche. Si realizzano quindi le economie di scala che permettono di abbattere i costi di produzione, spostando il guadagno sulla quantità e diluendo i costi di progettazione su un numero di vetture fino ad allora inimmaginabile.

L’eco di questo successo varca l’oceano e giunge fino in Europa e accende la fantasia, la passione e poi l’ambizione di Ferdinand Porsche, giovanissimo ingegnere tedesco, che sta tentando in tutti i modi di farsi strada nel mondo delle automobili, costruendole.

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Porsche è da sempre appassionato dalle auto, inizia a lavorare giovanissimo nel mondo dei motori e nel 1900, prima ancora di laurearsi, presenta all’Esposizione Universale di Parigi un suo prototipo di automobile, a trazione integrale, il primo al mondo, e ibrido: dotato di quattro motori elettrici, uno per ruota, primo al mondo anche qui.

Un uomo capace di simili primati, se si mette qualcosa in testa, la realizza. Così dopo essere stato impegnato nella progettazione e nella realizzazione di motori aeronautici durante la prima guerra mondiale, aver lavorato per la Daimler-Motoren-Gesellschaft (dalle cui ceneri nascerà la Mercedes) e aver preso una laurea in ingegneria Honoris causa, l’ormai ingegner Porsche apre un suo studio di progettazione. Nasce a Stoccarda il Dr. Ing. h.c. F. Porsche GmbH: il primo nucleo di quello che sarà poi la casa automobilistica Porsche.

Porsche e le richieste di Hitler

Ma collegare la figura di Ferdinand Porsche solo alle lussuose ed esclusive auto da corsa in commercio oggi corrisponde a fargli un grande torto. La sua idea era la stessa di Ford: l’automobile deve essere un bene di massa e non un lusso. Ma il sogno che in America si era realizzato, in Germania era solo nella sua mente. Fino al 1934, quando Hitler si autoproclama Fuhrer e cancelliere dei Reich dando inizio alla dittatura.

Porsche viene a sapere che Hitler ha intenzione di modernizzare il paese, in particolar modo ha bisogno di rendere i tedeschi autonomi negli spostamenti e per farlo ha bisogno di fornire loro automobili che siano robuste, resistenti ed economiche. I tempi sono maturi: Porsche si iscrive al partito nazista (pagherà carissima quella tessera e non sarà il solo) viene ricevuto da Hitler e presenta il suo progetto, che aveva nel cassetto da anni. Riceve delle specifiche di produzione, poche e basilari: abitabilità per 5 persone (o tre soldati e una mitraglia: non si sa mai), velocità massima di almeno 100 km/h, consumare poco (non più di 7 litri per km), costare meno di mille marchi. Davvero poche indicazioni, ma vergate dal Fuhrer in persona e quindi imprescindibili.

I primi prototipi vengono furbescamente copiati dalla Tatra V570, un’auto prodotta nell’allora Cecoslovacchia e disegnata da Hans Ledwinka, un ingegnere austriaco cui la seconda guerra mondiale non portò molta fortuna. La causa con la Tatra, che si vedeva derubata delle proprie opere di ingegno, durerà fino al 1961, con il pagamento da parte della VW di un cospicuo indennizzo.

Nata dal plagio della Tatra V570

Non deve sorprendere che una delle auto più famose del mondo, sia nata con un plagio: la somiglianza tra le automobili non è un fenomeno dei nostri tempi e all’epoca, le soluzioni meccaniche erano più facili da adottare, mentre l’importanza del design (che crescerà grazie a numerosi disegnatori italiani) era ancora un concetto in via di sviluppo. Copiare da chi aveva già fatto, significava partire da una base consolidata e da lì procedere con lo sviluppo. Ma ciò che spinse Porsche a copiare la Tatra V570 fu una frase semplice, quasi banale pronunciata da Hitler in persona: "Questa è la macchina per le mie strade".

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Un progetto costoso: nasce Volkswagen, l'Auto del Popolo

Passata la fase di progettazione c’erano due problemi da affrontare: l’auto si sarebbe dovuta chiamare “Kraft durch Freude-Wagen” tradotto con un “Auto della Forza attraverso la Gioia” e bisognava reperire i fondi per iniziare la produzione. Dei due solo il primo era irrisolvibile perché la pensata, per quanto non piacesse a nessuno, era stata proprio del Fuhrer. Per il secondo si pensò a un finanziamento pubblico, ma pubblico per davvero. Si propose ai lavoratori tedeschi di accantonare dallo stipendio 5 marchi a settimana, per un periodo di 4 anni, al termine dei quali avrebbero potuto ritirare dal concessionario la propria auto. Lo stipendio medio di un lavoratore tedesco nel 1935 era di circa 120 marchi e una rateizzazione del genere, convinse centinaia di migliaia di persone a partecipare alla copertura degli enormi costi di produzione delle auto.

La prima fabbrica della Kraft durch Freude-Wagen, chiamata poi Typ 1, venne edificata in Sassonia, presso il castello di Wolfsburg e, proprio per onorare il finanziamento popolare che ne aveva permesso la costruzione venne chiamata Volkswagen, Auto del popolo. Dato che la Typ 1 era l’unica auto prodotta nello stabilimento, il nome Volkswagen si traslò sulla vettura che convenzionalmente fu chiamata così.

La guerra: il sogno sospeso

L’auto fa il suo debutto al salone di Berlino del 1939, gran successo, ma nulla più: il Fuhrer dà inizio alla seconda guerra mondiale, ringrazia per i finanziamenti e ordina di convertire la produzione della Typ 1 in auto bellica. Nascono vari modelli, impiegati in tutte le campagne tedesche, in Russia come in Africa. I più celebri sono il Typ 82, utilizzato dalla Wehrmacht o il Typ 166 Schwimmwagen anfibio. Tra il 1943 3 il 1945 la benzina diventa preziosa e quasi tutti i modelli vengono convertiti a gas con l’integrazione di un bruciatore posto nel cofano anteriore (l’auto è una “tutta indietro” con motore posteriore a sbalzo).

Proprio sul finire della guerra gli alleati bombardano e distruggono quasi per intero gli stabilimenti di Wolfsburg. Parte dei macchinari e degli ultimi modelli prodotti vengono portati in garage e capannoni di privati cittadini per poter essere salvati. L’ingegner Porsche viene catturato dai francesi e messo in prigione con l’accusa di essere un collaborazionista (ecco che ritorna la tessera del partito nazista presa nel 1934) .

La detenzione di Porsche dura 20 mesi ed è pretestuosa: i francesi sanno che l’Ingegnere non ha commesso crimini di guerra ma sanno anche che negli ultimi dieci anni Porsche ha avuto a disposizione ingenti finanziamenti per sviluppare non solo la Typ 1 ma anche molti altri prototipi, dei quali non c’è però traccia, così come dei progetti e dei disegni usati in fase di sviluppo. Quindi, se Porsche vuole uscire di prigione, deve cedere ai francesi i suoi progetti, altrimenti che rimanga lì, a marcire.

Piero Duso, l'italiano 'juventino' salva Porsche

Porsche non molla e i mesi passano, fino alla comparsa nella storia di un nuovo personaggio, che paga alle autorità francesi un riscatto enorme, per la liberazione dell’ingegnere tedesco. A pagare è un italiano, Piero Duso, imprenditore appassionato di automobili, un po’ pilota, un po’ costruttore, un po’ (per 5 anni) presidente della Juventus, ma più di tutto ricchissimo e uscito ancor più ricco dalla seconda guerra mondiale. Nel 1944 Duso ha fondato la C.I.S.ITALIA una fabbrica di automobili con velleità sportive.

La sede, neanche a dirlo, è a Torino e assieme a Duso, collabora Piero Taruffi, pilota ma anche progettista (famosi la sua moto “Rondine” e il Tarf), vincitore tra le altre, dell’ultima edizione della 1000 Miglia. Servono progetti nuovi, innovativi, serve una mano esperta che sappia trasformare in progetti i sogni che la vulcanica mente di Duso è in grado di immaginare. L’imprenditore paga alle autorità francesi il riscatto di Porsche, lo libera e ottiene in cambio la collaborazione di Ferry Porsche (ingegnere anch’esso) figlio di Ferdinand che poi farà la fortuna dell’azienda paterna. Duso con il pagamento del faraonico riscatto di Porsche e qualche progetto troppo ambizioso, come un prototipo di Formula 1 che mai vedrà la pista, si vedrà costretto a ridimensionare e molto la C.I.S.ITALIA fino a cederla al figlio mentre Ferdinand Porsche, dopo l’uscita di prigione,  si prepara a uscire anche da questa storia.

Arrivano gli inglesi

Nel frattempo, nel 1945, dopo la fine della guerra, a Wolfsburg giunge un ufficiale inglese, Ivan Hirst, che ha il compito di finire il lavoro di demolizione iniziato dall’artiglieria alleata o di utilizzare quel che ancora è salvabile come officine utili all’esercito di occupazione. Hirst è laureato in ingegneria, ha passato parte della guerra in Belgio, addetto alla riparazione dei carri armati americani e deve convertire quel che rimane degli stabilimenti della Volkswagen in officine per la riparazione delle Jeep e delle auto dell’esercito inglese. Ma proprio in uno dei capannoni, l’ufficiale inglese trova una Typ 1, uscita dalle catene di montaggio, ma non ancora dallo stabilimento e ne rimane folgorato. Hirst ha conosciuto la versione bellica dell’auto in dotazione al nemico, ne ha apprezzato la duttilità e la robustezza e l’ha anche vista galleggiare e in alcuni casi navigare. Capisce che l’auto può essere non solo utile all’esercito Inglese ma una sua versione “civile” può essere veduta in molti paesi europei e non.

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La decisione è presa e nel 1946, grazie all’aiuto del Royal Electrical and Mechanical Engineers (R.E.M.E.) e alla manodopera dei prigionieri di guerra (in particolar modo italiani che avevano aderito alla repubblica di Salò), i capannoni industriali vengono ricostruiti e le linee di produzione riparate e attivate. Inizialmente le vetture prodotte sono solo di derivazione militare, ma dal 1949 la fabbrica deve iniziare a produrre auto per i civili e Hirst, prima di tornare in patria, deve trovare un manager cui lasciare le redini della fabbrica. Porsche (sempre a causa della tessera e delle conseguenti accuse di collaborazionismo) non viene neanche preso in considerazione.

L‘ingegnere una volta uscito di prigione, ha acquistato i capannoni di una segheria dismessa a Gmund in Baviera e qui ha iniziato a produrre la Porsche 356, una delle auto più belle di quella che sarà la “casa di Stoccarda”, senza linee di produzione automatizzate, ma in maniera artigianale. Una sorta di cameo, una soddisfazione voluta, dopo aver permesso a ogni tedesco di avere un’auto di proprietà. L’ingegnere morirà nel 1951, per un arresto cardiaco. Secondo le cronache non riuscì mai a superare le sofferenze della detenzione e anche le foto dei suoi ultimi giorni lo mostrano stanco e dimagrito (con una incredibile somiglianza a Roberto Calvi).

La produzione su larga scala

Hirst è restio a nominare alla direzione un dirigente tedesco ma alla fine la sua scelta cade su Heinz Heinrich Nordhoff, un ingegnere della bassa Sassonia, già dirigente presso la BMW e la Opel che dopo la guerra lavorava ad Amburgo. Nordhoff è l’uomo giusto al momento giusto: le sue competenze lo aiutano a ottimizzare i processi produttivi e a produrre la Typ 1 in maniera sostenibile (la soglia da superare era di 1000 vetture prodotte al mese) e la produzione del 1948 passa da meno di diecimila auto dell’anno precedente a più di 19.000 modelli. Sembrano grandi numeri, ma sono solo l’accensione della miccia dell’enorme successo che il Volkswagen Beetle avrà di lì agli anni a venire.

Dalle ceneri di una fabbrica quasi distrutta, la Volkswagen rinasce grazie alle idee e alla competenza del suo manager, che riesce a ridurre del 75% le ore lavoro necessarie a produrre ogni singola vettura, divide con i dipendenti i premi di produzione e ne accresce i salari. Importantissimo anche lo sbarco sui mercati esteri, in particolar modo il sud America che contribuiranno alla longevità del modello.

Il Maggiolino

La carta vincente del Maggiolino è però nella linea guida imposta da Nordhoff: fino al 1960 l’auto non è mai stata modificata, ma solo migliorata (alla fine della produzione si conteranno più di 70.000 interventi) rimanendo sempre uguale a se stessa e soprattutto riconoscibile: un’icona, appunto.

Porsche e la sua idea fantastica che incontra l’ordine di un dittatore nazista per realizzare la più socialista delle auto;  Hirst che invece di demolire quel che rimaneva di un sogno, corrotto dalla guerra, vede il lampo di genio di chi quel sogno lo aveva avuto e rigenera dalle ceneri un maggiolino, neanche fosse un’Araba Fenice;  Nordhoff con quel suo passato macchiato dall’aver utilizzato nelle sue fabbriche prigionieri dei campi di concentramento, ma trattandoli come operai, e non come schiavi e le sue idee modernissime, anzi, futuristiche di una azienda che premi non solo i manager ma anche gli operai, e che sappia indicare a tutti la via per la competitività e l’ottimizzazione dei processi produttivi, raccogliendo l’eredità di Henry Ford, ispiratore di questa incredibile storia a cavallo di uno dei periodi più tragici del nostro recente passato.

Ma come in tutte le storie, non tutti sono vincenti e qualcuno qualcosa ci ha rimesso: solo nel 1961, i lavoratori che avevano iniziato ad accantonare i 5 marchi a settimana per avere dopo 4 anni un maggiolino nuovo e fiammante, si vedranno riconosciuto uno sconto di circa 600 Marchi per l’acquisto dell’auto che nel frattempo ha raggiunto il costo di 3600 Marchi. 5 marchi per realizzare un sogno, andare al lavoro in auto, o magari spostarsi fuori città alla folle velocità di 100 chilometri l’ora, ma che la guerra aveva sospeso. Gli stessi 5 marchi, che la Volkswagen ha sempre versato a Ferdinand Porsche per ogni esemplare venduto, per ringraziarlo della tenacia e della lungimiranza.


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