L'eroe dei due mondi

Un genio del calcio, grande in campo come in panchinadi
L'eroe dei due mondi
Stefano Brunetti
9 min

Come lui, nessuno mai: Fulvio da Roma, Fuffo per gli amici. Dottore in Scienze Economiche, e Professore di calcio. Prima sul campo e poi in panchina. Segni distintivi? Due scudetti con due squadre diverse, pioniere in materia. E non è finita qui, perché Bernardini fece l’impresa lontano dalla Metropoli. Lui, figlio della Città Eterna, che da calciatore servì in tutte le sue forme (in ordine: Lazio, Roma e M.A.T.E.R.) sino al passaggio in panchina. Con la gloria che poi arrivò altrove, e cioè dalla provincia, nel senso di Firenze e Bologna: prima con la Viola, nel 1956, e poi con i rossoblù qualche anno più tardi. E Fulvio passò poi alla storia in fretta, perché all’epoca gli scudetti erano una questione esclusiva sull’asse Milano-Torino, ma ecco il Dottore a rompere uno schema consolidato. Lui, di famiglia agiata e indole aristocratica, ma rivoluzionario del pallone. Conservatore nelle idee, ma progressista nei fatti. Semplicemente Fuffo: colui che per primo fece scricchiolare il primato delle grandi. Così raccontato dallo Stadio dell’epoca.

1956.

Anno particolare, quell’anno, specie a livello mondiale. La crisi di Suez, i carrarmati a Budapest. Più tranquilla l’aria in Italia, anche se nel calcio tutto sta per cambiare. Per intenderci: dopo il Grande Torino, lo scudetto è stato per lo più una questione a tre, cioè Juventus, Inter e Milan, anche se poi ai nastri di partenza della stagione 1955-56 il copione sta per subire delle modifiche. Facciamo un passo indietro: dopo un’ottima carriera da calciatore, Fulvio Bernardini passa in panchina, dove si fa la gavetta vera. Parte dalla Roma, ma come dice il detto? Nessuno è profeta in patria, così eccolo prima a Reggio Calabria, in Serie C, e poi a Vicenza in cadetteria. Ed è qui che avviene la svolta: la Fiorentina manda via Magli e decide di puntare su di lui, cioè quel giovane che tanto sta facendo bene al Lanerossi. Fuffo accetta e stila un programma triennale: è il 1953. I fatti gli daranno ragione. Nell’estate successiva eccolo in Svizzera, ai Mondiali, ma non da tifoso: segue Julinho, ala brasiliana. Se me lo prendi, dice al presidente Befani, vinciamo lo scudetto. L’affare si realizza, e non è l’unico sudamericano in arrivo: c’è pure l’argentino Montuori, segnalato secondo la leggenda da un prete. Il resto è storia. «A un mese dalla chiusura del torneo calcistico» titola Stadio di lunedì 7 maggio 1956 «la Fiorentina è Campione d’Italia». A celebrare un successo nell’aria da tempo, e mai seriamente in discussione. «Pubblico valutato a circa ventimila spettatori, giornata piena di sole con temperatura calda». Con la svolta sul finire del primo tempo: «Al 41esimo la Fiorentina passava in vantaggio: una perfetta intesa manovrata da Julinho, Mazza, Julinho faceva capitolare inaspettatamente la rete di Nuciari». Poi il pareggio casalingo, e il risultato che non cambia più: 1-1, la Viola sul tetto d’Italia con cinque giornate d’anticipo. Un successo strepitoso, ben celebrato il giorno dopo da Aldo Bardelli: «Raramente si era verificata un’affermazione altrettanto limpida, netta, perentoria… Bisogna risalire agli anni migliori del grande Torino e alla Juventus del 1932 per trovare validi paragoni tecnici e statistici». Giusto per rendere l’idea. «Se i viola riuscissero a confermare la loro imbattibilità, stabilirebbero un nuovo primato del massimo torneo a girone unico». Sogno che sarà accarezzato fino all’ultima giornata, salvo poi sfumare nella trasferta conclusiva di Genova; ma una cosa comunque è certa. «Se la Fiorentina ha raggiunto la matematica sicurezza del successo soltanto domenica scorsa, da tempo si sapeva che lo scudetto sarebbe stato suo». Perché quello della stagione ’55-56 si trattò di un campionato chiuso con largo anticipo. «Alla ventunesima giornata di torneo la faccenda scudetto poteva considerarsi virtualmente risolta». E ai detrattori che parlano di rivali modesti, Bardelli risponde così. «La Juventus e il Torino dei cinque scudetti furono giudicati “grandi” (e giustamente) senza discutere troppo sulle dimensioni degli avversari. Ed è logico del resto, che tutti sembrino incredibilmente piccoli attorno a una squadra eccezionalmente grande». Cioè la Fiorentina di Bernardini: la prima ad abbattere l’oligopolio delle grandi. «E il valore assoluto di questa squadra è emerso anche nei confronti internazionali, il cui significato non si può diminuire con maliziose riserve». Domanda lecita: «Il mondo calcistico si è forse popolato d’improvviso di…pigmei? Con i suoi successi contro la Dinamo e l’Hayduk, la Fiorentina si è affermata addirittura come squadra di statura mondiale». Due amichevoli di prestigio vinte a inizio stagione; e quindi «non deve stupire che non abbiano retto il suo ritmo gli avversari di campionato: essi hanno avuto senza dubbio le loro debolezze, ma la loro situazione si è fatta disastrosa soltanto in rapporto alla stupenda armonia tecnica e tattica della Fiorentina». Conclusione perfetta: «Abbiamo finalmente e dopo molti anni, una grandissima squadra. Prendiamone atto con schietta soddisfazione».

1964.

E il seguito della storia è presto detto: Bernardini che torna alla Lazio, il primo amore. Ma il ritorno di fiamma dura poco, ed ecco i tempi maturi per Bologna. Risultato? Due quarti posti per cominciare, e il piano triennale che viene poi nuovamente rispettato, ma questa volta in maniera ben diversa da Firenze. Niente vittoria con largo anticipo, ma un testa a testa senza fine con l’Inter di Herrera: con in mezzo uno scandalo doping e mesi di veleni; Stadio si schiera subito con il Bologna, dando via a una guerra fredda tra giornali, città e mondi opposti. Poi la vittoria in tribunale e l’epica lotta che si sposta sul campo: c’è lo storico spareggio. Il presidente Dall’Ara muore qualche giorno prima della data X, Fulvio nel ritiro di Fregene piange assieme ai suoi ragazzi, ma stringe un patto di ferro: vincere per la memoria del presidentissimo. Cancellare mesi di malignità e dimostrare che Davide può battere Golia. L’Apocalisse è il 7 giugno del 1964, allo stadio Olimpico di Roma. I cavalieri del destino sono due: Romano Fogli, che sblocca la partita, e Dondolo Nielsen, che la chiude. Dopo ventitré anni il Bologna è di nuovo sul tetto d’Italia, per la settima volta. La più bella di tutte. «Harald Nielsen ha segnato la seconda rete del Bologna» scrive Alberto Marchesi sullo Stadio dell’8 giugno. «Sugli spalti le migliaia di tifosi bolognesi si scatenano». Il titolo dell’articolo è emblematico: “Il giorno Fulvio”. Tutto dedicato al mister. «Unico allenatore italiano ad aver vinto due scudetti guidando due squadre diverse». Cioè Fiorentina e Bologna. «E adesso con il cuore in tumulto per la gioia del trionfo, rivede in un rapido sogno a occhi aperti tutta la lunga via crucis della squadra». E cioè in ordine: «Il primo posto sul Milan a San Siro. La “bomba” del doping scoppiata proprio nel clima di euforia. Le accuse infamanti contro di lui e i suoi ragazzi. Due mesi d’inferno, poi la riqualificazione, i tre punti restituiti». E non è finita qui. «Le ultime partite giocate con la forza della disperazione. La morte improvvisa del Presidente Dall’Ara alla vigilia dello spareggio decisivo». Ma ecco il lieto fine. «Ora i suoi ragazzi hanno annientato la grande Inter, sono Campioni d’Italia. Fulvio non ha seguito nemmeno le ultime battute della partita». Con quegli istanti storici raccontati per filo e per segno. «Sente un gran caldo, si toglie la giacca affidandola al ragionier Ferri della Federcalcio. Un peso tremendo lo opprime, ha bisogno di sfogarsi». Roba da tragedia greca. «Si copre il volto con le mani e quasi si accascia. Intorno la gente crede che sia vittima di un malore, ma è soltanto un collasso psichico: Fulvio singhiozza, un pianto accorato di sfogo che dura qualche minuto». E poi via negli spogliatoi ad abbracciare i suoi ragazzi. «La scena è indimenticabile: i giocatori stanchi, sporchi, sudati, ma raggianti». C’è il massaggiatore Bortolotti, i suoi aiutanti, l’immancabile Zampieri e pure il sindaco Dozza: tutti attorno al Dottore. «Fuori dai cancelli dello spogliatoio, trepidanti per la salute del padre, ci sono le graziose figlie». Clorinda e Mariolina. «E lo stuolo al completo dei nipoti». Fuffo abbraccia tutti: non c’era mica il distanziamento sociale, all’epoca. «Poi rientra negli spogliatoi: e gentilmente, informa i colleghi della stampa che è molto stanco e che li riceverà a Fregene dopo aver fatto un bel sonno». Ma due parole a caldo scappano lo stesso. «Aò» dice Fuffo senza freni «mica ce faranno qualche altro scherzetto tipo Coverciano?». Il riferimento è allo scandalo doping, esorcizzato con ironia. Acqua passata. Il presente invece è solo gioia. «E l’ultima battuta spetta a Renna» scrive in conclusione Marchesi, «che racconta come un tifoso rossoblù, grande peccatore e ateo dichiarato, gli aveva promesso che se il Bologna avesse vinto si sarebbe battezzato e fatto cattolico». Dalle parole ai fatti? «Poco fa, ha confermato Renna, è venuto a ribadire la decisione». Bernardini è lì nei paraggi, sente tutto. «Come vedete, ragazzi» conclude, prima di andarsene, «la giustizia divina esiste!» Semplicemente Fuffo. L’eroe dei due mondi.  


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