Coach Piatti su Sinner e Alcaraz: "Niente Coppa Davis per sopravvivere"

L'ex storico allenatore dell'altoatesino: "L’hanno saltata per tutelare il fisico, non per l’Asia.  Non capisco le polemiche"
Coach Piatti su Sinner e Alcaraz: "Niente Coppa Davis per sopravvivere"© EPA
Lorenzo Ercoli
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« Non capisco le polemiche su chi giochi in Davis, l’importante è andare avanti. Mi fanno ridere anche le parole degli ex che non possono mettersi nei panni di chi gioca ai ritmi del tennis odierno, dove c’è meno tempo per migliorare e più rischio di infortuni». Riccardo Piatti non ama esprimersi sui singoli giocatori, ma ha le idee chiarissime sulla visione d’insieme di una disciplina in costante evoluzione. La passione che lo caratterizza è emersa anche sui campi dell’Enjoy Sporting Club di Roma, dove ha preso parte agli Head Experience Days. Dai “Piatti Boys” a Sinner, passando per Ljubicic, Raonic, Gasquet, Sharapova e sognando il destino dei nuovi Dhamne, Rapagnetta, Carboni e Sesko nella sua accademia. La volontà è sempre quella degli inizi, conoscere il tennis in ogni sua sfumatura.

Qual è oggi la sua visione del ruolo di coach? Dare ordini, ma essere dipendenti di un giocatore non credo sia facile.

«Essendo l’allenatore prendo io le decisioni tecniche, tattiche e strategiche finché non si è più d’accordo e le strade si devono separare. Naturalmente c’è un dialogo, ma se un giocatore se mi paga è per sentire ciò che io penso e in linea di massima seguirmi. Nella mia carriera ho portato al Masters Ljubicic, Raonic, Gasquet e Sinner per un totale di sei partecipazioni. Condurre un tennista in top 10 vuol dire conoscere un certo percorso e per questo mi sento sicuro».

Le dà fastidio quando le ricordano che le manca lo Slam? È un obiettivo?

«No no, non è qualcosa che mi infastidisce. Era ed è nei miei obiettivi vincere uno Slam, sicuramente. Quando ho iniziato, però, volevo conoscere il tennis ed è ciò che mi spinge ad andare avanti. La disciplina e il mio lavoro cambiano. Per esempio se negli anni 90 io andavo agli Slam con Caratti, Furlan, Camporese, Mordegan e Brandi, oggi un tennista va con sei persone».

Su Camporese c’è il parere unanime che potesse raccogliere di più, concorda?

«Ho avuto la fortuna di allenarlo per due anni. Se avessi avuto l’esperienza e la conoscenza di adesso credo che avrei potuto aiutarlo meglio e portarlo ad altri successi, questo sì».

Dopo Bologna come vede l’Italia del presente?

«Come abbiamo visto negli ultimi due anni l’Italia ha tanti cambi e un grande potenziale, a prescindere da chi giochi. A me sembrano inutili le polemiche su chi gioca e chi no, l’importante è che la squadra vada avanti e vinca. Una volta toccherà ad uno ed una volta ad un altro. Per me è chiaro che questi ragazzi siano tutti italiani, tutti patriottici e che rispettino la maglia azzurra. Gli atleti si trovano davanti situazioni non sempre semplici e mi fa ridere quando i vecchi giocatori parlano della Coppa Davis. Loro non giocavano con i ritmi frenetici di oggi, quindi non hanno neanche l’abilità di porsi certe problematiche».

Il riferimento immaginiamo sia soprattutto al calendario.

«Negli anni 90 partecipavano anche a 30 tornei, ora se ne giocano meno ma nell’arco di quasi dodici mesi. Le pause erano importanti perché un giocatore a fine ottobre smetteva e sapeva che per due mesi non avrebbe pensato al tennis. Adesso è più difficile perché bisogna trovare questi momenti durante la stagione, ma se uno va in vacanza dopo Wimbledon nella testa ha già gli US Open. Questo è il pericolo del tennis odierno, i ragazzi non hanno periodi di miglioramento ed è invece maggiore il pericolo di cadere negli infortuni».

Con l’Asia alle porte pensa siano arrivate in quest’ottica le rinunce di Sinner e Alcaraz?

«Sinner e Alcaraz hanno saltato la Davis perché pensano alla loro sopravvivenza, non perché pensano all’Asia, è una cosa ben diversa. Ci saranno momenti della carriera dove si sentiranno pronti per giocare la Davis e altri dove non lo saranno. L’Italia per me non deve avere paura perché ha una squadra con tanti giocatori».

Riferito a Jannik, Rune e non solo. Cosa ne pensa quando si parla di ventenni che hanno fallito per qualche torneo andato male?

«Chi boccia un giocatore lo fa più per ignoranza che per altro. Chi conosce la costruzione di un giocatore è consapevole delle tappe necessarie. Quando seguivo Djokovic, ricordo un Australian Open dove sia lui che Murray persero al primo turno. Li attaccarono dicendo che non ci fossero dei ricambi validi, ma direi che a posteriori entrambi sono stati ottimi ricambi».


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