© EPA Risate all'italiana
Il primo italiano a vincere Wimbledon non è mai stato così italiano. Ma certo, è questo il secondo trofeo che alziamo in faccia a re e regine, ai sangue blu che per rigido cerimoniale e convenzioni ingessate non possono lasciarsi andare neanche a Carnevale. Libero dall’incubo Alcaraz, dopo cinque bancate consecutive, stavolta Sinner slaccia il guinzaglio al suo Lato I (Italia), la parte che nessuna etichetta e nessuna convenzione riuscirà mai a trattenere, neppure con la museruola, perché quando partono le emozioni noialtri siamo passionali e sbordelloni, in nome e per conto della vita, di quel poco o tanto che la vita concede e per nessuna ragione al mondo lasceremmo passare via sottotraccia e sottotono, senza distinguerlo dal grigiore della normalità o peggio ancora dal buio dei momenti no. Uscire dal tunnel e dare un po’ in escandescenze, questa la novità, per quante escandescenze possa liberare un italiano pur sempre della Val Pusteria, dove comunque le reazioni umane scattano con una marcia in meno rispetto a Napoli o a Bologna.
Fino a Wimbledon, nella fresca epopea di Sinner sembrava doveroso siringare qualche ma-se-però e qualche zona d’ombra proprio rimarcando questo, il suo tiepido e compassato germanismo, perché ai perfezionisti della retorica piace rimarcare la differenza tra stereotipi, e figuriamoci se un altoatesino sudtirolese non deve pagare la tassa di soggiorno in una zona così poco segnata da vizi&virtù tricolori, come se qualche Italia fosse meno Italia di altre per il solo fatto di risultare meno emotiva, smodata, scamiciata, genere trullalero&fantasia, e per festeggiare almeno botti clacson caroselli ciucche tuffi nelle fontane. Sinner vince talmente tanto che anche quando perde merita ampio spazio in cronaca. Merita spazio sempre e comunque. Il rischio, a soli 23 anni, è già quello di scrivere sempre gli stessi articoli, di commentare sempre allo stesso modo, di suonare sempre lo stesso spartito.
Wimbledon, il nostro Wimbledon, ha anche questo di prodigioso: ci offre l’upgrade di un Sinner diverso, la versione turbo del Sinner tricolore, un italianissimo gigione che fa il simpatico cialtrone ballando con la Swiatek, che fa il Totò-e-Peppino davanti alla dama regale chiedendo “devo chiamarla her highness, sua altezza?”, che bellamente se ne infischia dei tetri begoni politici montati a Roma (vedi i diritti e i rovesci tra Renzi e Abodi, dio che noia), insomma un inedito Sinner leggerone e spensierato, fuori dalle regole e moderatamente fuori di testa, come se ne incontrano davanti alle nostre università dopo gli esami di laurea. Si legge che abbiamo infranto il tabù di Wimbledon, ma con quel tabù ne mandiamo a casa un secondo, decisamente imprevisto: i biografi accigliati si trovano improvvisamente davanti un Sinner che sa disunirsi e sganasciare quando la vita diventa bella da impazzire. Non è ancora l’urlo di Tardelli, non è ancora il Cannavaro di Berlino, non è ancora l’adorabile Bisteccone degli Abbagnale, ma fa enormi progressi. Il Sinner paisà sta arrivando.
