Jannik Sinner è italiano. Andrebbe ripetuto in coro, come un mantra. Perché sono i luoghi comuni che affondano silenziosamente l’Italia, col nostro compiacimento. Sorridiamo mentre ci scaviamo la fossa. I luoghi comuni andrebbero estirpati e poi accatastati per un bel falò. Sinner è italiano. Altoatesino, quindi italiano. Sinner è talento ma soprattutto abnegazione, programmazione, propensione ai sacrifici. Quelli che sopporta da tempo, da quando ha puntato su sé stesso per diventare un campione di tennis. È italiano il giovane che un paio d’anni fa anni fa raccontò: «Quando perdevo e chiamavo mamma per lamentarmi, mi rispondeva “devo lavorare”». È italiano il ventenne (oggi ne ha ventidue) che prese la sofferta decisione di separarsi dalla sua storica guida (Riccardo Piatti) per lasciare la comfort zone, nuotare in mare aperto e provare a guardare in faccia i propri limiti. E superarli. L’Italia del luogo comune si dava di gomito e sorrideva quando Jannik annaspava e veniva precocemente eliminato in qualche torneo. Lui perseverò. Capì che avrebbe dovuto migliorare. Altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare tra i grandi del tennis. Il Sinner di oggi è innanzitutto un altro tennista. Ha un servizio che due anni fa se lo sognava. Ha una solidità fisica che ha ammutolito chi storceva il naso di fronte a quell’atleta troppo esile. Sinner ha lavorato sul talento. E non è un’eccezione. Né una prerogativa del profondo Nord. Gli esempi sono innumerevoli: qui ci limitiamo a citare Mennea da Barletta, o ancora Totò Antibo da Altofonte, Sicilia. Siamo noi italiani che ci ostiniamo a raccontarci come mammoni, bamboccioni. E quasi ci infastidiamo quando la realtà ci smentisce. Ci sentiamo uniti dalla mediocrità. La alimentiamo. Come, per fare un esempio, quando ci appaga riempirci la bocca di Donnarumma ha sbagliato ad andare al Psg perché ha perso l’aria di casa. Bello di mamma. Ecco, è giunto il momento di ribellarsi allo sciocchezzaio. A questa narrazione che si crogiola nella rassegnazione. Non è la realtà. Sinner è italiano. Come lo è Bagnaia altro atipico nello storytelling nazionale. Come lo sono stati, passando a spaccati più seri, citati ieri da Aldo Cazzullo, Dante, Cristoforo Colombo, San Francesco: “Si rassegnino gli autodenigratori di professione: sono esistiti anche italiani così”.
Sinner è l'Italia
Ieri, nella semifinale di Torino, era il russo a litigare col pubblico, ad assumere atteggiamenti provocatori. A provare a fare il furbetto. L’italiano è rimasto fedele al suo comportamento, non si è spostato di un millimetro. E alla fine ha vinto, anche nettamente. Come l’altra sera, quando tutta Italia parlava del biscotto, di quanto potesse convenire perdere con Rune per eliminare Djokovic, mentre Jannik vinceva superando anche un problema alla schiena. “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, disse Massimo D’Azeglio. In realtà bisogna cambiare il racconto del nostro Paese. Riscoprire l’orgoglio d’appartenenza. Patriottico non è una cattiva parola. Magari imparare a distinguere tra bravo ragazzo e assassino. O imparare a godere di un film - come quello di Paola Cortellesi - che sta sbancando al botteghino perché ci ricorda chi siamo e da dove veniamo. E che quei sacrifici andrebbero protetti. Nella nostra narrazione auto-mortificante, Sinner è stato subito etichettato come il diverso, l’eccezione. È altoatesino. È rosso. Non fa testo. E invece no. È a questo che bisogna ribellarsi. Sinner è l’Italia. Noi siamo la fatica. La perseveranza. La serietà. Basta “spaghetti e maccaroni”, non se ne può più. Noi vinciamo 6-1 al terzo set. Perché siamo più forti. Nel braccio ma soprattutto nella testa.