Il Cagliari e la Sardegna viaggio in una terra ferita

Oltre il calcio: alla scoperta delle radici di un popolo non ancora compiuto ma che ha inconsciamente scelto un simbolo da oltre quarant'anni. 1: i sardi, i tifosi e i Quattro Mori
Il Cagliari e la Sardegna viaggio in una terra ferita
Vincenzo Sardu
6 min

CAGLIARI - Marcello Serra, uno dei sardi più illustri del ventesimo secolo, nel 1958 diede alle stampe uno fra i tanti libri scritti sull'Isola, dal titolo "Sardegna, quasi un continente". Dal testo la Rai ricavò all'alba degli anni '60 un documentario disponibile in rete la cui visione sarebbe utile a tutti i sardi contemporanei, soprattutto a quelli in età scolare. Partendo da un elemento geologico, la Sardegna eredità di un antico territorio sconvolto da un cataclisma nel periodo terziario, collocato all'incirca 66 milioni di anni fa, Serra affermò che la Sardegna era per sua natura e tipologia "quasi un continente". Può far sorridere, ma in realtà sono i sardi a vedere "continente" tutto quel che non è entro i confini del mare: basta prendere una nave o un aereo per la penisola ed ecco, lì si va sul continente. Direte, cosa c'entra col calcio? C'entra perché probabilmente passando per queste scorie di una identità che dalla comparsa dell'uomo in Sardegna diventa ancestrale, ha origine uno status del quale non si è ancora consapevoli ma che rende spontaneo usare - stavolta sì consapevolmente - simboli che soltanto un sardo nato e vissuto nell'Isola può riconoscere come propri e come tali.

Il Cagliari, inteso come squadra, ha iniziato a essere un simbolo nel quale tutti i sardi (checché ne pensino taluni) tranne frange minoritarie di calciofili, si riconoscono a partire dall'epopea dello scudetto e il fenomeno ha assunto visibilità soprattutto grazie a una delle piaghe secolari degli isolani, l'emigrazione. Difficile trovare un sardo trapiantato altrove che non avverta il richiamo della squadra: può essere nato a Santa Teresa di Gallura o a Teulada, a Nuoro o ad Assemini, ma fuori dalla Sardegna il Cagliari è un cordone ombelicale che lega chi è lontano alla propria terra. Di più, persino i sardi della seconda o terza generazione, ovvero figli o nipoti degli emigrati, si ritrovano questa fede, ed è qualcosa che va oltre il calcio perché si avverte fortissimo il rapporto con l'Isola persino in coloro che non ci hanno mai messo piede, oltre che a essere nati altrove.

La Sardegna non ha una economia che può consentire a tante persone di saltare il mare a ogni trasferta eppure è rarissimo vedere il Cagliari che gioca da solo, senza neanche una bandiera al seguito, al di là della ferrea fede di chi frequenta la curva nord che andrebbe a piedi pure in Antartide se fosse necessario. Il Cagliari dello scudetto, così spiegarono fior di sociologi al tempo, diventò una ragione di riscatto sociale e di orgoglio territoriale: probabilmente da lì ha preso piede tutto il resto.

Non è questo il contesto nel quale andare a caccia delle cause dei mali che affliggono la Sardegna ma probabilmente è vero quel che, detto col sorriso sulle labbra, non pochi evidenziano: il difetto peggiore dell'Isola è chi la abita. Spieghiamola, prima di vedere orde di risentite repliche: per generosità, buonismo, un senso di rispetto e di ospitalità, il sardo raramente alza la voce persino quando pure dovrebbe, per reclamare i propri diritti. Altri sono semplicemente ignavi e, infine, altri ancora sono protagonisti e cause degli errori che creano il disagio. In realtà, fin dai tempi degli antichi romani, i sardi hanno sofferto in particolare di una malattia ben spiegata dal famoso detto latino "divide et impera". Un vescovo spagnolo di cattedra a Cagliari nel XV secolo, raccontando ai suoi reali cosa erano i sardi, li definì "pocos, locos y mal unidos". A compimento di questa descrizione, un detto sardo che fotografa così i popolani: "centu concas centu berrittas", ovvero cento teste e cento cappelli. In soldoni, altri approfittano dei sardi perché sono divisi su tutto. Ma non sul Cagliari.

Dai miti dello scudetto in poi, il rapporto non ha mai perso consistenza, anzi. Persino la consapevolezza che partendo da un apogeo (lo scudetto) poi si è dovuto per forza di cose scendere in basso (un quasi fallimento, alcune retrocessoni, persino la serie C) non ha scalfito il progressivo radicamento che in particolare negli ultimi dieci anni, grosso modo dall'ultimo ritorno in A del 2004, è stato possibile osservare anche attraverso un simbolo che a maggior dimostrazione del rapporto identitario, si è radicato diventando praticamente un dogma: la bandiera dei Quattro Mori.

Il vessillo ufficiale della Regione Sardegna sta diventando maggioritario nei campi di calcio dove gioca il Cagliari. E altrettanto accade nei parquet dove gioca la Dinamo basket. In altre parole, il simbolo sportivo viene associato a qualcosa che identifica la Sardegna. Casi analoghi in Italia? Nessuno. In Europa? Il Barcellona, il Bilbao e alcune squadre scozzesi. Lo scorso settembre, in occasione della visita - troppo veloce, lo avremmo voluto con noi più a lungo - del Santo Padre a Cagliari, ad accogliere e festeggiare Francesco una moltitudine di bandiere sarde. Rivedere oggi quelle immagini fa ancora più effetto perché le si può analizzare con un livello meno intenso di emozione. Era quello il simbolo che si presentava al Papa. Un simbolo che non ha niente di pagano neppure se esibito in uno stadio, o un palasport: come il celebre stemma Spqr identificava il rapporto fra il senato e il popolo di Roma, la bandiera sarda identifica un popolo, che in uno stadio si riconosce nel Cagliari.

La conclusione è che in una terra che soffre e patisce vera miseria, disconosciuta da troppi oltre il mare, i suoi abitanti che da chissà quanti secoli hanno in sé la natura di popolo (una recente indagine scientifica individua nei sardi la percentuale più elevata in tutta Europa di mappa genetica rispetto a quella dell'uomo che per primo ha calpestato il pianeta, si dice in Africa) si riconoscono in un simbolo sportivo al quale abbinano un simbolo effettivo. Il Cagliari e i Quattro Mori. Immagino già la domanda che tanti non sardi si porranno: se il rapporto è tale, come mai allo stadio vanno così in pochi? La risposta è soprattutto questa: non conoscete davvero cosa siano la fame e la miseria. Ora occorrerebbe parlare delle piaghe ma non è il caso, chi vive da questa parte del mare sa che non è una spiegazione retorica o demagogica. Il simbolo, la bandiera e i sardi. Alla vigilia del nuovo campionato, questo è il racconto diverso dal solito che ho scelto.

 

1 - continua


© RIPRODUZIONE RISERVATA