Conti a Veltroni: «Da Nettuno a Madrid...»

Classe, forza, tenacia e valori: il più brasiliano degli italiani racconta una carriera straordinaria
Conti a Veltroni: «Da Nettuno a Madrid...»
Walter Veltroni
8 min

ROMA - La corsa di Conti, come quella dei grandi calciatori, si ricorda a occhi chiusi. Il vero intenditore di calcio distingue i giocatori dal modo in cui solcano il campo, non ha bisogno del supporto della telecronaca. Conti era tutto: veloce, tecnico, forte fisicamente, geniale nelle giocate, dotato di un cross perfetto. Quando cadde "come corpo morto cade" nell’area della Germania tutti lo abbiamo amato come un fratello. Anche lui, come Losi, Totti, De Rossi, Florenzi è stato "er core de Roma". Perché questa città con tutti i suoi difetti, ha il cuore grande capace di ospitare e non dimenticare chi le fa del bene.

«Facevo il chierichetto in parrocchia, a Nettuno. C’era, nell’oratorio, un campetto di terra battuta, circondato da mura di cemento. La palla non usciva mai, sbatteva e tornava in campo. Io passavo lì molto tempo a palleggiare, fare dribbling, tirare rigori e punizioni. Ma il mio cuore era diviso tra calcio e baseball. A Nettuno gli americani sbarcati per liberarci avevano portato non solo la libertà, il boogie woogie e le sigarette ma anche il baseball, loro sport nazionale. Per generazioni si è tramandata questa passione, venuta dal mare».

Quindi abbiamo rischiato di perdere l’ala destra che tutti gli italiani ricordano?

«In effetti sì. Vennero i dirigenti di una squadra importante, il Santa Monica, e chiesero a mio padre se potevano ingaggiarmi. Io ero un buon lanciatore, mancino, come sarei stato anche con i piedi. Il mio esempio era un mito del baseball nettunense, Alfredo Lauri. Mio padre chiese qualche giorno per riflettere, non era certo un tipo impulsivo. Poi prese la sua decisione, ero troppo piccolo, non era il caso. E grazie a quel padre apprensivo o forse solo responsabile sono arrivato fino a Madrid».

Com’era la sua famiglia?

«Mio padre si alzava la mattina alle quattro e andava a lavorare, faceva il muratore. Eravamo sette figli. Dormivamo in una casa modesta ma non ci hanno mai fatto mancare nulla. Ricordo il calore rassicurante della stufetta di legno che riscaldava l’ambiente e tre dei miei fratelli che dormivano nello stesso letto. Ricordo quando mio padre tornava a casa, stanco, si lavava e ci preparava la bruschetta. Gli piaceva cucinare. Mia madre mi urlava di smettere di giocare e di andare a lavorare, che servivano i soldi a casa. Eravamo quasi una squadra di calcio, a tavola».

Suo padre la seguiva agli inizi?

«Ma come poteva, pover’uomo? C’era mio zio, che faceva il barbiere, che mi accompagnava in giro. Io mentre giocavo per il Nettuno fui visionato da quello che chiamavano "il mago del Tirreno", Domenico Bivi. Mi caricò su una Lambretta e mi portò a Anzio. Non grande distanza, ma grande salto di qualità. Feci vari provini con squadre come il Bologna, la Sambenedettese e anche la Roma. Herrera mi vide e disse che sì, tecnicamente ero bravo, ma non avevo il fisico da calciatore. La stessa risposta si ripeteva, sempre. Fu un periodo difficile. Tra il no di papà all’America e le porte sbattute dalle squadre blasonate, mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta».

Quando fu la svolta?

«Mio cugino aveva un bar a Lavinio e organizzava dei tornei di calcetto. Mi chiamò e io trovai Di Bartolomei, Giordano, Di Chiara. Andavano in ferie lì, erano già nelle giovanili delle loro squadre, fortissimi. Mi sembrava un sogno. Fatto sta che feci un nuovo provino, questa volta con Liedholm. E fui preso. Ero un giocatore della Roma. Per mio padre che aveva anche il cuore giallorosso, fu il momento più bello della vita».

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Si ricorda l’esordio?

«Tutto, ricordo. C’erano le targhe alterne e da Nettuno partì praticamente tutta la città in treno per venire all’Olimpico. Era un Roma-Torino. Io mi procurai un rigore. Poi Domenghini sbagliò, ma, come si sa, può capitare».

Poi passò al Genoa.

«Sì , mi mandarono lì per farmi le ossa, dovevo giocare e una squadra di B era l’ideale per uno, come me, alle prime armi. Si fa così nella vita. Si soffre, prima di gioire. Andai da mio padre per dirglielo. Gli feci il bel discorso che avevano fatto a me. Me lo ricordo ancora. Lui era sul suo motorino. Mi ascoltò e quando finii non disse una parola. Girò il ciclomotore e se ne andò. Vedo ancora la sua figura allontanarsi. Come se io avessi tradito la Roma. O la Roma lui»

Come andò quell’esperienza di formazione?

«Vinsi il Guerin d’oro come miglior giocatore del campionato di B. E a fine anno fummo promossi in A. L’allenatore era Gigi Simoni, grande tecnico e grande galantuomo. Mi ha dato tanto e io non lo dimentico. Partii in panchina poi divenni protagonista. Vivevo in appartamento con Pruzzo, Chiappara, Mosti. Giocavamo nella Nazionale militare e così tornavo spesso alla Cecchignola, vicino casa».

Dalla Cecchignola al Tre Fontane non è poi così grande, la distanza.

«Infatti l’anno dopo torno a Roma. Ma non feci tanto bene. A fine campionato mi chiamò Anzalone, il presidente, per dirmi che la Roma aveva bisogno di un bomber, che loro avevano individuato Pruzzo e che il Genoa, in cambio, aveva chiesto che io tornassi lì. Insomma, mi sacrificai per Pruzzo. E la cosa più difficile fu dirlo di nuovo a mio padre...».

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I ritorni sono sempre difficili...

«Infatti fu un brutto campionato. Rischiammo di finire in serie C. Dopo l’anno difficile di Roma e questo deludente di Genova sinceramente vacillai. Ma venne in soccorso, come sarebbe successo tante volte, Nils Liedholm. Lui volle riportarmi a Roma, per la gioia di mio padre».

Doveva essere, dai racconti che tutti ne fate, un gigante umano, non solo tecnico.

«Una persona unica. Andava a vedere le partite delle squadre giovanili, ci seguiva, amava i calciatori fantasiosi e tecnici. Una volta mi mise in grave imbarazzo. Io ero ancora un ragazzo, giocavo nella Primavera. Mi chiamò davanti alla prima squadra, Cordova e altri campioni, e mi disse: “Bruno, fai vedere come si fa lo stop di interno, il tiro al volo...Io mi vergognavo tantissimo ma lui faceva tutto con tale sincerità che veniva amato sempre, da tutti. Liedholm era un maestro di calcio. Ricordo che Rocca, giocatore magnifico, ai primi tempi scendeva con irruenza sulla fascia e poi metteva al centro dei cross che però non erano misurati. Lui allora si fermava ore con Francesco per provare con lui i traversoni. Restavano sul campo loro due. Anche così Rocca divenne quel fenomeno che è stato, e che bisognerebbe tutti ricordare un po’ di più».

Mi dice che ruolo è quello dell’ala?

«È sacrificio. Tanto. Devi avere doti tecniche, saper saltare l’uomo, arrivare in fondo, mettere la palla al centro nel modo giusto per la testa del bomber. Non facile. Ma l’ala deve anche rientrare, deve marcare, coprire una zona di campo che, mi creda, a farla cento volte in una partita, sembra una maratona. Lanci, gol, chilometri. Questo è l’ala, nel calcio».

Chi è stato il più forte nel suo ruolo?

«Potrei dirle Causio o Sala, e non sbaglierei. Invece le dico Angelo Domenghini. Lei ricorda quello che ha fatto nel Cagliari con Riva? Si consumava a fare chilometri per tenere sempre raccordata la squadra. Era magro, sembrava patito, perché si faceva in quattro anche per gli altri». 

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