PESCARA - Piermario Morosini poteva essere salvato: la convinzione si rafforza a mano a mano che il processo per la sua morte procede davanti al giudice di Pescara. Il 14 aprile 2012, sul terreno dello stadio Adriatico, mentre il centrocampista del Livorno stava morendo, c’erano tre defibrillatori, però nessuno pensò di utilizzarli. E’ stata drammatica la testimonianza resa da Lelia Di Giulio, dirigente della Digos e vicequestore in servizio quel giorno allo stadio. La teste ha ricordato che Morosini, 25 anni, si accasciò a terra mezz’ora dopo l’inizio della partita. Trascorsero soli 20 secondi e il medico del Livorno entrò in campo, seguito dal collega del Pescara. “Subito dopo arrivò anche un operatore della Croce Rossa, con la barella, che, poco dopo, tornò verso la sua postazione per prendere una valigetta gialla contenente il defibrillatore». Che però non fu mai usato, al pari degli altri due presenti in campo, gestiti dalla Croce Rossa e dalla Misericordia. Ha raccontato Di Giulio: “Dopo circa un minuto dalla caduta del giocatore, Porcellini, medico del Livorno, ha iniziato le manovre sul corpo di Morosini e ha effettuato un massaggio cardiaco, mentre dopo due minuti e 40 secondi è arrivata in campo l’ambulanza». Secondo i periti nominati dal Tribunale, i tre medici «dovevano usare il defibrillatore semi-automatico disponibile quel giorno allo stadio». Il Pescara Calcio, la Asl di Pescara e l’Associazione Sportiva Livorno sono state citate in giudizio come responsabili civili, ma la società livornese è stata estromessa dal processo, nel corso della scorsa udienza, in quanto non aveva avuto la possibilità di partecipare all’incidente probatorio. L’autopsia ha accertato che il decesso venne causato da un arresto cardiaco dovuto ad una cardiomiopatia aritmogena.