Missione e condanna

Missione e condanna
Giancarlo Dotto
3 min

Che cosa mette romanzescamente insieme quelli che sono tutti blacks (oggi all’Olimpico per il visibilio dei romani) e quelli che sono a strisce black and white (tre ore dopo allo Stadium contro la Spal)? L’inesorabilità. La vittoria come missione e come condanna. Che la palla sia ovale o tonda, che sia Waka Nathan o Beppe Furino, che parta tutto da una danza folle o da un ventre caldo, tra urla e tagli di luce, è lo stesso occhio paranoico che spaventa prima di farla a pezzi l’interferenza tra sé e il proprio destino. All Blacks e Juventus fanno notizia solo quando non vincono. Detto altrimenti,se fallisci in black o in black e white ti senti uno zero, l’ultima calpestabile cacca del pianeta. Se fallisci dentro qualunque altro colore il dramma è sempre opinabile, poiché resta comunque dolce la vita o il babà.
La differenza, niente affatto minima, è che per i neozelandesi (da nove anni consecutivi in testa al ranking internazionale) l’impresa in quanto opera permanente è la conseguenza del mito, il fiato di una nazione alle spalle. Nazione uguale identificazione. Nel caso dei bianconeri il mito è aspirazione (meglio se sostenuta dal profitto). Di un popolo disperso tra nord e sud, dentro una nazione più ostile che amica.
«Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta» non lo sentirete mai dalla bocca di un Ben Smith (per cui “neozelandese” è casomai l’unica cosa che conta). Concetto o slogan che sia, fesso, nel senso di vuoto, come pochi. Il cannibalismo applicato allo sport sottrae valore alle proprie imprese realizzate e ingigantisce quelle altrui mancate. Alimenta il tedio dei vincenti e la frustrazione negli sconfitti. Umilia l’attesa, ammorba la trama. Non funziona. Per la Juve l’ottavo scudetto consecutivo sarebbe come infilarsi un tutù bucato nell’atto di mimare stancamente il rituale della gioia, mentre a Napoli o a Roma, ma di questi tempi anche a Milano, ballerebbero la rumba sui cornicioni del palazzi. Pur di non stare lì a vita a reggere l’abito della solita sposa, noncurante di essere troppo vecchia e poco signora.
Il cannibale, alla fine, divora se stesso. Se chiedi alla gente di Merckx, i più ricorderanno lui piangente come una creatura nel lettino, accusato di doping, un’immagine crudele ma che autorizza la gente a sperare che ci sia un futuro nel nome di Gimondi o di Poulidor, gli eterni sconfitti. Nessuna cosa vivente sopporta di vincere a oltranza. L’ultima emozione forte del tifoso juventino risale all’addio di Del Piero, sei anni fa, a soffocare la festa scudetto. Sciarpe bianconere lanciate come fiori, tutti che piangevano come vitelli. Uno psicodramma collettivo, come mai si era visto in uno stadio italiano, superato solo anni dopo dall’addio di Totti. L’emozione è il sale del calcio. La sua necessità. Sarà per questo, è per questo, che Andrea Agnelli, il giovin signore, il più lungimirante di tutti, sta flirtando così intensamente con l’Europa. Dove covano le storie, le imprese e i cavalieri giusti per riattizzare i cuori fiaccati dall’abitudine.


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