Masia, dalla Torres in poi... il calcio è un istinto

Gioia, difensore, ha vinto tutto sia a Sassari, dove è nata e cresciuta calcisticamente, sia fuori. Dopo l'Acese l'anno scorso, quest'anno vuole portare in serie A il Chieti e poi... "E poi smetto e faccio un figlio"
Gioia Masia, il calcio è un istinto
Valeria Ancione
8 min

ROMA - Gioia non va di fretta. Si gode quello che le sta attorno perché lo sceglie. Il nome Gioia le somiglia. Ha un’allegria contagiosa e un approccio alla vita leggero. L’appuntamento è a Piazza del Popolo a Roma e lei, nonostante sia sarda nel profondo, è addirittura in anticipo («Mi sono svegliata alle sette per arrivare alle 11»). 

Ci incamminiamo lungo via del Corso per arrivare all’Antico Caffé Greco di via dei Condotti. Fa molto intellettuale e per i racconti di una calciatrice sarda e nomade è il posto più indovinato. Ci sediamo sulla lunga panca di velluto rosso, circondate da pareti tronfie di quadri e camerieri eleganti e sull’attenti. Sì è il posto giusto.

Ma Gioia Masia affascina più del luogo: la parlata inconfondibilmente sarda, lo smalto scuro, una frase tatuata sul polso e un gesticolare garbato. Una donna è sempre piena di dubbi, ma i dubbi non sono che le imperfezioni che rendono perfette le donne. I dubbi si trasformano in domande che generano risposte e portano soluzioni. 

 

smetto.  «Questa è l’ultima stagione. Smetto... - poi si volta ridendo - L’ho già detto l’anno scorso? E’ che questa storia del figlio mi agita. Ho 38 anni e me ne sento 20, però capisco che il tempo bussa. Domenica scorsa sono rimasta in panchina perché sono infortunata e sono stata malissimo. Ho capito quanta voglia ho ancora di giocare».

E allora racconti, com’è la storia del figlio per una calciatrice? «Ci penso da un po’, ma io ho l’istinto calcistico più che l’istinto materno. Sicuramente Giampiero è più pronto di me. Penso a tutte le trasformazioni del corpo e a quelle che avvengono in una coppia e un po’ mi spavento. Però l’età mi costringe a pensarci davvero a questo figlio».

 

L’amore. Giampiero Serafini è il suo compagno, conosciuto grazie al calcio. L’amore è veicolo d’amore. E’ stato suo allenatore alla Lazio e poi per cinque anni alla Roma. Deve essere faticoso avere il marito allenatore, chi ha ragione? «In realtà è stato bellissimo, perché abbiamo condiviso tante cose. Certo non mi ha mai fatto i complimenti. Solo una volta e in privato, perché avevo fatto il campo palla al piede, dribblando tutti fino a fare gol. “Bella azione”, mi ha detto. A casa la regola era che non si parlasse di calcio. Anche perché io stavo dalla parte delle compagne, lui con lo staff. Adesso è diverso, non mi allena e quindi fa appunti e complimenti, mi rimprovera sempre perché dice che mi concedo troppe libertà di attaccante. Però lui è l’uomo della mia vita».

Lo dice con la certezza di chi si è salvato in zona Cesarini. Quasi a tempo scaduto le è arrivato l’assist e Gioia, a tre mesi dal matrimonio, ha fatto marcia indietro. Una litigata che prende consistenza come un’azione da rete, via via che le parole rotolano come un pallone. L’assist glielo dà l’ex fidanzato. «Mi dice “quindi non mi sposi più?” No, gli rispondo. Il vestito è rimasto al negozio, il ristorante è stato disdetto e con tutti i soldi stabiliti io e mio fratello abbiamo avuto le stanze nuove. Meglio tre mesi prima che tre mesi dopo. Quando l’ho detto a casa, stavamo pranzando, si è sentito un frastuono di forchette, tutte cadute assieme nei piatti».

Con l’aria che tira nel calcio femminile, Gioia sarà mica l’unica etero? Ridiamo... «Non se ne può più di sentir parlare di lesbiche. Ma alla gente cosa importa cosa fanno le calciatrici? Per me l’amore non ha sesso. E’ un sentimento senza controllo, ti investe, è libero e ognuno fa quello che sente. Io amo tanto. Amo Giampiero, la mia famiglia, il mio cane... Invece la gente vuole puntare il dito e giudica sempre, pensando di essere dalla parte giusta».

 

la metamorfosi. Gioia ha lo sguardo profondo, la pelle liscia e un sorriso coinvolgente. Ma... «Tranne le mani e i piedi, non mi piace niente di me, cambierei tutto».

E molto è cambiata, vista l’infanzia da maschiaccio. «Mamma era disperata. Fino ai 13 anni non volevo sentir parlare di gonne e capelli lunghi. Giocavo con le macchinette di mio fratello, e a lui rifilavo le mie bambole, e poi a pallone per strada con i miei amici maschi. Con le bambine ci litigavo. E da grande volevo fare il militare. Ero contro la discriminazione. I ragazzi giocavano a calcio e noi ragazze dovevamo sparecchiare. All’oratorio noi stavamo con le suore a cucire e loro coi preti col pallone. Allora scavalcavo e andavo anche io dai preti».

Il fratello si è diplomato al Conservatorio e le ha cambiato la vita. «La sua musica mi ha salvato. Un giorno lo accompagno e mi chiedono di fare la majorette e mi trasformano: capelli, trucco... Insomma sono diventata majorette, continuando a giocare a calcio e sono diventata femmina».

 

volevo fare il calciatore. A nove anni ha iniziato a giocare con i ragazzi. Poi un’amica la porta alla Torres, che non aveva il settore giovanile però. Si allenava e non giocava. «Una volta giocai in un torneo ad Alghero. Ero così eccitata di essere nello spogliatoio che non capivo niente, tanto da sentire il mister dire il mio nome e infatti sono entrata in campo. Dopo poco l’arbitro ha fermato il gioco eravamo in dodici e l’allenatore mi ha urlato di uscire! A 14 anni finalmente ho esordito in serie A. A 15 anni ero lo stopper titolare, allora si chiamava così. Il calcio era il mio mestiere. Volevo essere Van Basten, per questo tifo Milan. Poi sono diventata difensore».

Giocava nella Torres, la squadra più forte e vincente e decide di andar via. «Avevo bisogno di altro e sognavo di vivere a Roma. E sono arrivata alla Lazio. Sono stata in Nazionale e il capitano della Roma. Ho girato tanto. Ora ogni anno penso di smettere e ogni anno ricomincio da un’altra parte».

 

colpo al cuore.  In Sardegna il calcio sopravvive in serie B, Caprera, Oristano e Villacidro, c’è tra queste un erede della grande Torres? «No, non ci sarà un’altra Torres. E’ stata unica. Quando ho saputo della sua scomparsa è stato un colpo. Lì sono nata e cresciuta e ho vinto tanto. Non l’hanno voluta salvare. Quei livelli sono irraggiungibili. Serve un certo tipo di organizzazione per andare in A e restarci a lungo, vincendo di tutto. E non vedo società pronte per questo»

 

la meraviglia. Il calcio è amore. E’ amicizia. E’ l’incontro che ti addolcisce la vita. L’anno scorso all’Acese si costituisce il trio romano Masia-Di Bari-Martinovic. Due difensori e un’attaccante: lavorano a Roma e giocano in Sicilia. Hanno portato l’Acese in serie A e quest’anno ci riprovano con il Chieti. «Sono Gioia Masia seria e impostata tutta la settimana; poi arriva il venerdì ed entro in un’altra dimensione. Non ho più 38 anni, ne ho 20. E partiamo noi tre: Daniela (Di Bari, ndr) è una matta, io faccio la finta seria e Melania (Martinovic, ndr) dice forse e poi fa tutto. E’ una magia che dura 48 ore, un momento tutto nostro».

E va bene così... «Mi pento di non essere andata a giocare in Spagna. Mi voleva il Valencia e poi il Barcellona. Sapevo che se fossi andata lì non sarei più tornata. Stavo da poco con Giampiero e lui è l’uomo della mia vita. Amo la Sardegna, sono sassarese dentro, ma non tornerei a viverci. A Roma ho trovato la mia dimensione».

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