D'Astolfo: "Del calcio mi piace "allenare" l'aspetto umano. L'Italia? E' cambiata e andrà ai Mondiali

Ex centrocampista, ha giocato con le più grandi e vinto tanto. Allena il Sassuolo con cui si è appena salvata in A. Ha 52 anni e vorrebbe più tempo per viaggiare, leggere e scrivere, ma il pallone alla fine vince sempre. "Mi dicevano vai a lavare i piatti. La strada è una palestra di vita. All'ultima Coppa del Mondo io c'ero, è ora di tornarci"
D'Astolfo: "Del calcio mi piace "allenare" l'aspetto umano. L'Italia? E' cambiata e andrà ai Mondiali
di Valeria Ancione
10 min

A centrocampo, lì dove passa il mondo di palloni, di idee, di visionarie intenzioni; lì dove la timidezza si nasconde e si confonde nel traffico che converge verso quel centro; lì, crocevia della fatica e della resistenza, non ci si finisce per caso a lavorare.

Federica D’Astolfo - da Roma, quartiere Prenestina, vagabonda poi del calcio, o per colpa del calcio, e infine con fissa dimora in Emilia - è nata centrocampista e fino a quarant’anni ha presidiato quella zona che mischia il gioco all'esistenza. Quel che stupisce negli uomini (da Zoff a Totti a Buffon) per le donne è quasi la normalità spingersi così avanti con l’età giocando ad alti livelli. “Ero centrale. Allora si diceva metodista, play. Egocentrica? Forse  - ride - mi piaceva stare al centro e per una riservata come me suona strano”. Mettersi al centro dell’attenzione, o dell'azione in questo caso, non è che l’antidoto alla timidezza, in fin dei conti, ed esalta le contraddizioni umane.

LA VECCHIA REGGIANA. Oggi Federica D’Astolfo ha 52 anni, allena il Sassuolo femminile, che un giorno era la Reggiana. Di questa squadra ne è allenatrice ma anche genitrice. “Quando ho smesso di giocare, ho allenato il settore giovanile maschile di una polisportiva. Sono rientrata nel femminile un po’ tardi, e solo perché Betti Vignotto mi ha convinto sei anni fa: dalla serie C siamo arrivate in A. C’è tutta la storia della vecchia Reggiana in questa sede, i sacrifici di Vignotto e Azzolini, le scalate di categoria, l’abbandono per mancanza di soldi. Qui c’è un serbatoio incredibile di bambine. Il grande merito del Sassuolo è di aver valorizzato la nostra identità di femminile. La società ha messo risorse, fatto progetti, ma nel rispetto della nostra storia. E’ una bella simbiosi tra noi e la maschile: c’è uno scambio di idee. Il Sassuolo si è dimostrato un club attento e vicino, da Terzi a Carnevali, siamo state seguite bene. Forse avevo dei pregiudizi anche io e invece ci sono il progetto, l’idea e la voglia di portare avanti gli aspetti educativi”.

CONQUISTA E ORGOGLIO. Chissà, forse la fatica è la misura della soddisfazione e dell’orgoglio. La matricola poco terribile, ma cocciuta, alla meta ci è arrivata. All’ultimo bus utile, nello spareggio contro la Roma, il Sassuolo ha salvato la sua serie A. Meritatamente. Questo è il Sassuolo, uno specchio che riflette l’immagine di amore e passione per il calcio, senza volerla cambiare. «Abbiamo avuto tanti infortuni quest'anno, e ci siamo trovate a scalare una montagna. Nove ragazzine erano al debutto in A, ma alla fine siamo cresciute tutte, anche io con loro. Il gruppo è meraviglioso. Per me quello che conta di più sono le relazioni e la cura delle relazioni. Conta come si sta assieme. Per salvarci, per non mollare ho messo al centro l’aspetto umano, cercando di valorizzare più il percorso del risultato. E ho trovato accoglienza e aiuto reciproco. Bello. Nonostante le difficoltà, nonostante il lungo periodo senza vittorie. Ci siamo messe alla prova cercando di essere autentiche».

LA STRADA. Federica aveva 5 anni quando ha iniziato a giocare, ovviamente per strada come molte della sua generazione. “Ore e ore con gli amici, fino a 18 anni, anche dopo gli allenamenti con la squadra si finiva sempre col tirare palloni sotto casa”. Un fratello più grande, “un buon difensore”, da emulare, seguendolo negli allenamenti e nelle partite. Lei si metteva da una parte e palleggiava o faceva il riscaldamento con i ragazzi, ben più grandi di lei. “L’importante era vedere un pallone”.

LE VITTORIE. Dalla Lazio in poi, dopo lo scudetto dell’87, ha iniziato a pensare che il calcio potesse essere un lavoro anche per una donna. Anzi, meglio, un mestiere, come un artigiano. Complice la famiglia, i genitori, che non le hanno posto divieti. A scuola non dava problemi e quando tornava a casa, dopo la sbornia di pallone quotidiana, la madre aveva una sola preoccupazione e una sola domanda: “ti sei fatta male?” Ha vinto scudetti, coppe, è stata in Nazionale, ha giocato con e contro le più grandi. Ha sviluppato l’arte della difesa, contro i pregiudizi e le discriminazioni, contro quello che oggi si chiama bullismo. “Negli anni Settanta una bimba che faceva calcio coi maschi, era sbagliata. Me ne dicevano di tutti i colori. Mi mandavano a lavare i piatti, perché solo questo dovevano fare le femmine. Ma la strada è una palestra di vita e quando c’era bisogno facevo anche a botte. Così ho superato in qualche modo la mia timidezza. Attraverso quelle difficoltà ho imparato a conoscermi di più e ho trasformato in positivo le cose negative che ho subito”.

IL CALCIO CHE VA. Pochi giorni prima delle grandi sfide, Federica ha postato una foto in cui ci sono lei, Rita Guarino coach della Juventus e Milena Bertolini, ct della Nazionale. Nella foto sono giovani, un “come eravamo” per domandarsi “dove siamo arrivate e dove stiamo andando”. Di strada sterrata e buche e saliscendi di illusioni e delusioni, tutte e tre ne hanno fatta. Federica faceva gli auguri per i tre traguardi che dovevano raggiungere: la prima a vincere la sfida è stata Guarino, che dopo pochi giorni da quella foto ha conquistato il primo scudetto della storia della Juventus; poi è toccato a D’Astolfo assicurarsi la salvezza nello spareggio; è rimasta Bertolini che l’8 giugno potrebbe già prendersi il passi per il Mondiale di Francia 2019. Il calcio cambia e loro, che ci hanno creduto se da qulla foto sono ancora in mezzo a un campo. E ora vivono meritatamente la rivoluzione nel femminile, che tra qualche anno godrà di gloria e fama. “Certo, la maglia azzurra ti rimane addosso per sempre. Se penso che c’ero io all’ultimo Mondiale dell’Italia, quello del ‘99, è ora di tornarci! E’ una bella Italia questa, ce la può fare. C’è stato un cambio di direzione e di mentalità. E’ una squadra che fa, propone gioco e che ha aumentato l’autostima e la determinazione. Forse siamo ancora indietro rispetto ad altri Paesi, ma abbiamo smesso di correre sempre dietro e il gioco lo facciamo noi. Nel tempo si costruiscono fiducia e convinzione. Fisicamente paghiamo? Forse, ma compensiamo con tecnica e tattica. L’anno prossimo avremo una bella serie A (ci saranno anche la Roma, il Milan ndr)”. Ci sono opportunità che ai miei tempi non c’erano. Mi piace pensare che non si disperda niente della storia del calcio femminile. Le donne possono dare tanto a questo sport. Quello che non dobbiamo fare è scimmiottare la maschile, specie nelle cose negative, e difendere i valori del femminile”.

IL TEMPO SENZA TEMPO. “Introversa costretta a stare sempre in mezzo alla gente”, dice. Una specie di contrappasso terreno. Parla lentamente, Federica D’Astolfo, con i pensieri puliti e distesi. Si è concessa qualche giorno di pausa dal calcio, dalle decisioni. Però le piacerebbe allenare giocatrici come Parisi, Bonansea, Giugliano, Rosucci. Ma quello che vorrebbe ora più di ogni altra cosa, sarà la stanchezza o la necessità di introspezione, è prendersi del tempo, vero. Un tempo senza tempo, per viaggiare e leggere. “Ho girato tanto col calcio, sono andata anche in Cina e in America, ma voglio vedere le isole della Grecia. Amo il mare, e la Sardegna dove ho vissuto tanto”. Si fermerebbe per dare il tempo alla lettura e alla scrittura. “Dei libri mi piace la scoperta, la sorpresa. Un libro ti fa volare”. Adesso sta leggendo “Ricordi, sogni, riflessioni” di Jung, predilige le letture filosofiche. E ha la passione per la scrittura. “Mi rilassa tantissimo scrivere. E’ una liberazione interiore. Vorrei buttare giù una storia, anche suggerita dalle tante esperienze che ho vissuto. Ho scritto diverse cose sul calcio, sui pregiudizi che ho vissuto sulla mia pelle. Ecco, vorrei il tempo per scrivere”.

A 52 anni il tempo chiede attenzione. Le cose necessarie chiedono attenzione. E quando la stagione finisce, prima che ricominci l’altra, incalza il momento della domanda, “cosa voglio?”. E voglio il tempo è una risposta diffusa e comune a molte donne. Fermarsi sarebbe la prima, e giusta, risposta. Poi le torna in mente che bastava un pallone e forse basta ancora. «Togliersi di dosso questa passione, lo so, è una fatica».


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