Serie A, Donadoni: «Destro super, Roma ti sfido»

Il tecnico del Bologna: «La squadra ha risposto bene fin dal primo momento. Il segreto? Coinvolgere i giocatori ed esaltarne i pregi
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BOLOGNA - Sarebbe stato bello parlare solo di Roberto Donadoni arrivato nel Bologna che su dieci partite ne aveva vinte due e perse otto; sarebbe stato bello cominciare leggeri, guardando negli occhi chi aveva battuto subito Atalanta e Verona (cinque gol fatti, zero subiti), vivificando la classifica. Ma dobbiamo cominciare con altro. «Venerdì ho saputo di quello che era successo a Parigi. Ne ho parlato subito con mio figlio Andrea. A gennaio era a Parigi, studiava poco distante dal giornale Charlie Hebdo. Dall’autunno del 2014 al maggio di quest’anno ha svolto un corso in una delle più importanti scuole europee di fotografia. Abbiamo ancora dentro il clima di quei giorni. E ora di nuovo. Quello che è accaduto scuote. Sono morti tanti giovani, anche fra chi ha organizzato le stragi. Pensare che un giovane termini la sua vita per dare morte ad altri giovani non è comprensibile. E fa paura. Un padre e una famiglia che mandano i propri ragazzi a studiare, lavorare, divertirsi a Parigi o altrove restano annichiliti. Non c’è religione che possa giustificare tutto questo. Penso alla famiglia della ragazza di Venezia, Valeria Solesin e alle tante altre famiglie straziate. Ho solo dei brividi».

Bisognava parlarne, anche per introdurre il tema della riconciliazione con questa sua nuova terra, l’Emilia, dove ha lavorato e vissuto per anni, concludendo, come sappiamo l’avventura a Parma. Roberto Donadoni come è stato il suo impatto con Bologna?
«Ottimo, mi piace questa terra, i tre anni a Parma mi hanno fatto scoprire e apprezzare l’Emilia».

In due partite lei ha svoltato. Su che tipo di lavoro ha puntato?
«La risposta della squadra è stata perfetta. Questo è importante, perché ti dà subito la benzina che ti serve. Ho pensato che dovevo smussare i difetti ed esaltare i pregi di questa squadra».

Le statistiche dicevano che questa era una squadra che correva tanto, più di tutti in serie A. Però questa corsa non trovava riscontro nei risultati.
«Se corri solo per rincorrere gli avversari, non serve a niente. Se corri significa che è stata fatta una buona preparazione. Ma bisogna trovare un equilibrio, correre bene. E far correre gli avversari».

Di che cosa ha bisogno Donadoni?
«Di tutti, e mi riferisco ai giocatori. Ho bisogno di coinvolgerli».

Da qualche giorno sono stati reintegrati anche Ceccarelli e Pulzetti.
«È una scelta decisa dalla società, che io ho avallato. Ma c’è un problema di regolamento, al momento non possiamo inserirli nella lista dei venticinque. E comunque siamo in tanti».

Rossi lamentava il problema contrario. Ai giornalisti, il primo giorno di ritiro a Castelrotto, disse: «Siete più voi dei miei giocatori». Poi c’è stato il mercato.
«Noi abbiamo una decina di giocatori di troppo: è un problema che dovremo risolvere».

Sabato al Dall’Ara arriva la Roma. Cosa significherebbe vincere?
«Pochi ragionamenti sugli avversari, preferisco concentrarmi su noi stessi. La Roma ha valori altissimi. Se vinci ha valenza doppia».

Cosa sta dicendo di nuovo questa serie A?
«Napoli, Roma e Fiorentina sono in testa alla classifica perché impongono il loro gioco: è una novità rispetto al recente passato».

In questo campionato c’è una maggiore democrazia al potere?
«Le valutazioni che si fanno in questo periodo sono figlie di sensazioni del momento, riparliamone tra quindici giornate».

Il Bologna dove può arrivare?
«Bisogna ricordare che questa squadra fino al 9 giugno ha vissuto con l’incertezza tra A e B. Dobbiamo lottare per mantenere la categoria. Poi strada facendo si migliora...».

Lei quando ha deciso di diventare allenatore?
«Quando ho smesso col calcio giocato. E’ stata mia moglie a spingermi a fare il corso».

E del calciatore Donadoni cosa resta al calciatore allenatore?
«Tutto».

Magari le capita di vedere qualche suo giocatore che sbaglia un cross e allora pensa: io questo lo facevo meglio.
(Ride) «Non devi viverla così. Un mio vecchio allenatore diceva: per essere un buon fantino non devi essere stato un cavallo».

Qual è il suo ideale di allenatore?
«Quelli duttili, che sanno plasmare la squadra. Vi faccio un esempio: a Lecco, al mio primo anno in panchina, ero partito con l’idea di riproporre il modulo con cui avevo finito, il 4-3-1-2. Ma avevo il trequartista, De Zerbi, che si era rotto un ginocchio e allora ho virato sul 4-3-3. L’anno dopo a Livorno ho detto: il 4-3-3 ha funzionato, vado avanti con quello. Mica vero. Niente è automatico. Avevo giocatori più adatti al 3-5-2, e allora ho cambiato anche quella volta».

Donadoni, perché non ha ancora allenato il Milan?
«Ho smesso di farmi queste domande, è solo una perdita di tempo. Non sono domande che faccio a me stesso, le farò - se capita - a chi di dovere»

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