Sembravamo dinosauri smarriti in questa modernità inavvicinabile, i parenti poveri d’un calcio strepitosamente evoluto verso dimensioni irraggiungibili: e invece, come se il tempo si fosse fermato ai quei fantastici Anni 90, il made in Italy ha ancora un suo appeal che nell’abbagliante Scala di San Siro manda in scena un derby da mille e una notte. Milan-Napoli è uno spot per un Paese che ha saputo spesso farsi del male da solo, che ha molto sprecato - economicamente - ma che ha pure investito su se stesso, ha mostrato il coraggio nelle proprie scelte, si è rinnovato, ha espresso una diversità che sta tutta dentro questa sfida che un po’ cancella i precedenti e un po’ li sistema lì, in un vicolo della memoria, a uso e consumo di ulteriori innovazioni nelle quali bisognerà metterci le mani. Visto che Osimhen è fuori, Simeone pure e neanche Raspadori sta molto bene, il Napoli si ritrova nel proprio teatro dell’assurdo, incolla i cocci di questa primavera e s’industria: scavando nella genialità di Luciano Spalletti qualcosa uscirà, semmai un «falso nueve» inedito - Elmas più di Kvara, comunque i due assieme a Lozano - una diavoleria con la quale andare a rovistare tra i concetti del Milan, che dal pareggio con l’Empoli comunque un po’ ammaccato ne è uscito. Ma Pioli, che appena dieci giorni fa se n’è andato dal «Maradona» con certezze che sembravano definitivamente demolite, dopo essersi reinventato se stesso impadronendosi ancora e di nuovo di un’impostazione più familiare, è consapevole che ciò ch’è stato scritto nel primo quadrimestre del 2023 non può essere stato cancellato da un’ondata di benessere. Il passato in Champions non ha un senso definitivo, può orientare certe scelte ma evitando di radicarle, e una semifinale da conquistare in centottanta minuti può comportare anche mutamenti non genetici ma strategici.
La vita nuova
Il Milan del bel tempo perduto, quello che a maggio scorso ha ribaltato il senso della propria esistenza e pure quella dell’Inter, è uscito dal proprio corpo, e da gennaio in poi ne ha perse cinque e vinte altrettante, s’è smarrito complessivamente in quattro pareggi, ha infilato in questa innaturale involuzione il maestoso blitz di Napoli ma soprattutto ha offerto a se stesso, nel braccio di ferro con il Tottenham, gocce di fiducia e di consapevolezza d’una natura internazionale che gli appartiene geneticamente. Però lo 0-4 ha rappresentato la svolta, soprattutto tattica, una riconversione alla difesa a quattro e a tutto quello che si sa dalla mediana in su, aggiungendoci quel tarlo di Bennacer su Lobotka e la rinascita di Brahim Diaz e Leao su corsie divenute improvvisamente e di nuovo patrimonio d’una squadra risorta. Il Napoli ha rappresentato, e non smette di esserlo a ventiquattro giorni di distanza dall’esaltante 0-4 di Torino, il poster d’un calcio nuovo, stellare, l’espressione più alta dell’ultimo trentennio, la proiezione in sedicesimi - per autorevolezza, eleganza, leggerezza - di ciò che fu il Milan di Sacchi, divenuto poi (ovviamente) altro, cioè leggenda. Però non ha Osimhen, gli mancano i suoi venticinque gol, quell’atletismo devastante in ogni spigolo delle partite, la solenne interpretazione d’un ruolo da leader tecnico con il quale è più semplice impossessarsi del destino. Il Milan sceglie la miglior espressione della sua annata in chiaroscuro, infila nella magia di una notte a metà - perché l’altra andrà in onda tra sei giorni al «Maradona» - la padronanza d’un sistema che ha dimostrato di avere nelle corde, una energia insospettabile emersa guadando occhi negli occhi nel Napoli, che intanto sta mutando espressione, non certo pelle, magari s’adatterà a una partita insolita, certo modificherà qualche codice, però senza alterarsi, né corrodersi l’anima. Milan o Napoli, si vedrà: però intanto l’Italia, l’Europa, le guardano.