Vania, quando il calcio ti salva la vita

Ha iniziato a giocare a pallone a 16 anni, era nella Lazio dello scudetto. Poi è passata al calcetto. Ha 40 anni e gioca ancora. "Mi hanno diagnosticato un cancro al seno e io ho deciso che non avrei smesso di vivere. E infatti ho continuato ad allenarmi e a giocare le partite del campionato di serie C con la New Team Tivoli, e poi i tornei amatoriali fino luglio, fino a poco prima dell'intervento di mastectomia. Ora sto bene e non vedo l'ora di riprendere. Il calcio mi manca"
Vania, quando il calcio ti salva la vita
Valeria Ancione
5 min

ROMA - Una testa liscia, pelata può essere bella se ricorda la forma di un pallone piuttosto che la forma della paura. Vania va veloce, con quella testa diventata liscia come un pallone, più veloce della malattia, della retorica, dell’ipocrisia. «Chiamiamo la malattia col suo nome, senza giri di parole: tumore, cancro. A me hanno diagnosticato un cancro al seno e ho avuto paura di perdere tutto, ma ho deciso che non avrei smesso di vivere. Il tumore prima lo accetti, prima lo affronti, prima lo abbatti. Credo che il cancro sia stato un campanello di allarme per la mia vita precedente. C’è bisogno di un colpo violento per capire certe cose».

Il cancro si è portato via due seni, ma ha lasciato tutto il resto e molto di più. Vania ha 40 anni e gioca a pallone da quando ne aveva 16. Dagli amici sotto casa, alla Lazio dello scudetto, al calcio a 5 dove ancora gioca in serie C. «Sapevo che se mi davo anima e corpo al calcio un giorno mi sarei ritrovata senza niente. Il calcetto non mi diverte quanto il calcio, ma è meno impegnativo e a 29 anni non avevo scelta». Così ha smesso col calcio a 11 e ha ripreso gli studi per diventare tecnico ortopedico. Fa su e giù da Capranica, dove abita, a Perugia, dove lavora: 150 km ad andare e 150 a venire, tutti i giorni. Non ha smesso nemmeno durante la chemioterapia, pesantissima, necessaria a ridurre la massa di 7 centimetri prima di asportarla. Su e giù per lavorare. Su e giù per giocare con la sua New Team Tivoli, due allenamenti a settimana e la partita, portando con orgoglio il fiocco giallo per i Marò.

«Sono stata circondata da persone fantastiche, a partire dalla mia squadra che non mi ha mai fatto sentire malata. Mi sono allenata sempre. In partita giocavo cinque, al massimo sette minuti per colpa dei globuli rossi, troppo pochi. Conoscevo i miei limiti e dentro quelli mi sono mossa. Via via che perdevo i capelli e poi le sopracciglia, non sopportavo gli sguardi della gente. Già uno ha il suo dramma, si possono subire pure gli occhi di chi ti guarda e vede la morte? Io però non mi sono mai voluta nascondere sotto a una parrucca».

Vania ha lo sguardo e la morbidezza di un orso di peluche. Parla a voce bassa e ha un’ironia sottile e tagliente. Prende in giro e si prende in giro. «Mi dicono, sei forte Vania! Ma io non mi sento così forte. Ho soltanto fatto quello che mi dicevano di fare. Ho aggiustato l’alimentazione, cambiando radicalmente certe abitudini togliendo alcuni alimenti ed è stato determinante secondo me. Ma soprattutto non ho smesso di vivere: ho giocato e lavorato. Non sapevo come sarebbe andata a finire, ma in ogni caso non mi sarei perdonata di aver perso del tempo ad aspettare».

Tanta famiglia con lei, una famiglia numerosa di zii e cugini tutti nello stesso stabile, e poi Cinzia che la tiene d’occhio, che le dà il tempo per le medicine, che chiude un occhio e fa spallucce se mangia una cosa che non deve, ma non è d’accordo. E la nonna, a cui Vania era legatissima, che se n’è andata un attimo prima che cominciasse la chemio. «Sembra che lo abbia fatto apposta, perché non avrei mai trovato il modo di dirglielo e nemmeno di nasconderglielo».

Il pallone è un gioco che ti salva la vita. E’ una ciambella di salvataggio nel mare in tempesta. E’ una passione che aziona tutti gli organi vitali. A calcetto ha giocato fino a una settimana prima dell’intervento di mastectomia: prima il campionato di serie C e dopo anche i tornei amatoriali. Un reggiseno corazzato e via, a calci il brutto della vita. «E’ come avere un mostro dentro, non sai mai se ha finito di mangiare. Io me lo sono figurato come un pacman dentro a un labirinto che mangia palline bianche e non capivo se aveva finito di mangiare. Il seno destro andava tolto e il sinistro l’ho fatto togliere io e ora sono più tranquilla. Non potevo vivere con una spada di Damocle... Sono passata da una quarta misura a una seconda di reggiseno, così tengo tutto meglio sotto controllo. Peccato, il seno era l’unica cosa che mi piaceva di me. Però sono sempre stata positivia, perché se sei negativa la malattia ti sovrasta. E non ho mai pensato perché proprio a me?».

«Quando posso tornare a giocare?», è stata la prima domanda appena sveglia dopo il lungo intervento che le ha asportato entrambe le mammelle. «Il calcio mi manca, non ce la faccio a stare ferma. Presto torno a correre. Giocare mi fa sentire libera, quando mi alleno non penso». Tre giorni dopo l’operazione, incerottata e con le braccia un po’ bloccate lungo i fianchi, si è presentata serena alla festa di un’amica, allargava la canottiera mostrando il suo nuovo seno. «Bello eh? Da coppa di champagne. Mi stanno ricrescendo i capelli, speriamo che non siano ricci. I seni li rifarò il prossimo anno, prenderanno del grasso dalla pancia per ricostruirli. Non potevo farli finti. E neanche volevo perché ho pensato che è brutto un giorno da morta ritrovarsi stesa, afflosciata con le tette puntate verso l’alto!»


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