Veltroni intervista Pippo Inzaghi: «Milan, sarai la nuova Juve»

Con il Venezia sta stupendo in Serie B, suo fratello Simone vola con la Lazio: una sfrenata passione di famiglia per il pallone nata nella mansarda di casa
Veltroni intervista Pippo Inzaghi: «Milan, sarai la nuova Juve»© ©Andrea Pattaro/Sestini
Walter Veltroni
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Il primo gol di Filippo Inzaghi in uno stadio?
Il primo gol da professionisti è quello che non si dimentica mai. Lo stadio era quello del Leffe. Ricordo un’esultanza incredibile, quasi imbarazzante. Era dicembre del 1992, avevo diciannove anni, era la prima esperienza lontano da casa. I primi mesi al Leffe non furono semplici perché mi ero separato dalla famiglia, ne soffrivo. In Lega pro, per due tre mesi, all’inizio, non giochi mai. Comunque lì, piano piano, mi sono costruito il futuro che ho avuto, perché non ho mai mollato.

Come aveva cominciato da bambino a giocare a calcio, con Simone?
Con Simone giocavamo sempre, in casa. Per la disperazione dei miei genitori, di mia mamma. Avevamo una mansarda e lì giocavamo mille partite con un pallone fatto con le calze. Le mettevamo insieme e diventavano un gomitolo, un pallone. Una porta era quella del bagno e l’altra era sotto il camino, dove c’era una fessura. Passavamo così tutti i pomeriggi. Partite accanite. Io mi fratturai persino il quinto metatarso, giocando in casa con mio fratello a piedi scalzi.

Da bambino era già il centravanti che poi abbiamo conosciuto?
A me e Simone piaceva fare gol, ecco. Fin da bambini ci mettevamo sempre in attacco e facevamo tanti gol. Mi ricordo che all’epoca, nei pulcini, avevamo segnato cento gol in una stagione. Noi giocavamo veramente per divertirci, che è quello che devono fare i giovani di oggi, perché se giochi solo per diventare un campione è più facile perdersi.

Eravate in stanza insieme, lei e Simone?
Sì è stato ed è incredibile il rapporto che avevamo e che abbiamo. Frutto dell’educazione che ci hanno trasmesso i nostri genitori. Le racconto questo: andavamo a giocare nella piazza del paese e io portavo sempre mio fratello che aveva due anni e mezzo meno di me. A volte lui non lo facevano giocare, perché era più piccolino. Ma se non facevano giocare lui, allora non giocavo nemmeno io.

Il sogno calcistico della vostra infanzia quale era?
Uno solo: svegliarci la mattina e andare a giocare a calcio. Finivamo la scuola e con le cartelle della scuola facevamo le porte nel parco. Poi il pomeriggio andavamo ad allenarci con le nostre squadre. Era tutto semplice e bello. Mio padre era un grande sportivo, tifoso del Milan, e ci portò, bambini, a vedere il Mundialito. Quel giorno a me e mio fratello tremavano le gambe, entravamo a San Siro per la prima volta. Ci saremmo tornati tante volte. Non sugli spalti, in campo. Da giocatori e poi da allenatori. Ma quei due bambini emozionati, allora, non potevano saperlo…

Chi è stato l’allenatore più importante nella sua vita?
Tutti quelli che ho avuto mi hanno dato qualcosa. Poi è chiaro che se devo dirne uno dico Ancelotti, che mi ha allenato per più di dieci anni. E sappiamo tutti Ancelotti che persona sia… Ma ringrazio tutti gli allenatori che ho avuto: mi hanno fatto amare questa professione. Io non ho mai mancato di rispetto all’allenatore, non ho mai mandato a quel paese qualcuno perché mi aveva cambiato o lasciato in panchina. Questa è una cosa importante in un rapporto tra giocatore e allenatore.

Sliding doors: se lei fosse andato al Napoli come era stabilito la sua vita, la sua carriera sarebbero state diverse ? Pesò la dichiarazione di Boskov? Io sarei andato a Napoli molto volentieri, ma nel calcio non si può mai sapere quello che può succedere e come sarebbe stata la carriera. Io rinunciai non per Boskov, ma perché, la sera della decisione da prendere, si giocò il ritorno, a Parma, della partita con l’Halmstad. All’andata in Svezia avevamo perso 3-0 e il ritorno si presentava proibitivo, sulla carta. Ma io feci gol dopo quaranta secondi e vincemmo 4 a 0. Quella sera la società del Parma decise di non mandarmi più a Napoli. La verità è tutta qua, non ci sono altre cose.


Qual è il difensore più arcigno che lei ha trovato? Quello che la faceva più soffrire?
Penso ai duelli di una volta, attaccanti come Crespo, Del Piero, Vieri, Montella e difensori come Maldini, Nesta, Cannavaro, Thuram, Ferrara, Samuel, Mihajlovic, erano tutte grandi sfide. Dirne uno è difficile. Quando non lo ho avuto come compagno, affrontare Maldini era sempre complicato, perché Maldini era davvero molto forte.

E invece chi era quello che le faceva i lanci più belli?
Quello che mi ha lanciato meglio nella mia carriera è stato senza dubbio Pirlo. Nessuno era capace di dare la palla in profondità, sopra i difensori, come lui.

Qual è il gol più bello della sua vita?
Sicuramente quello di Atene: segnare in una finale di Champions e vincerla, per un attaccante è un sogno. Mi creda, io per dieci notti non ho dormito. Non mi era mai capitato e sta a significare l’emozione che avevo provato. Anche se devo dire che nel 2007 ho avuto la fortuna di fare due gol ad Atene, un gol a Montecarlo e due gol a Yokohama. Cinque gol nelle tre finali, un’impresa unica. Ne sono orgoglioso, perché non lo ha mai fatto nessuno nella storia del calcio. Quello è stato un anno magico. Se poi pensiamo che avevo trentaquattro anni… A volte, adesso, a vent’anni i giocatori si sentono vecchi…
 

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