Mazzola: «L'Inter di HH, la staffetta e quei caffè...»

«Ce li davano sempre prima di giocare, non so cosa ci fosse dentro. In campo mi girava la testa, i medici volevano fermarmi sei mesi»
Mazzola: «L'Inter di HH, la staffetta e quei caffè...»
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Walter Veltroni

ROMA - Sandro Mazzola ha fatto uno dei gol più belli della storia del calcio. Lo segnò nel 1966 contro il Vasas, in Ungheria. Partì da centrocampo, marcò tutta la difesa magiara, superò il portiere, si accentrò, aspettò persino che rientrasse in porta il numero uno degli avversari e, mentre tutta Italia davanti al teleschermo gridava “Tira, tira” non spiegandosi perché lui aspettasse tanto, infilò il pallone nell’angolo alla sinistra dell’estremo difensore del Vasas. Qualcosa di simile al gol leggendario di Maradona con l’Inghilterra. Un’altra volta con la Svizzera, in amichevole, fece sei palleggi al volo e poi segnò all’angolo basso. E’ stato un fuoriclasse, leggero di fisico e tenace come pochi. In questo paese cha ama le polarità e le contrapposizioni, nel paese di Coppi e Bartali, il cognome di Mazzola viene spesso associato, quasi pavlovaniamente, a quello di Rivera. A complicare tutto ci si mise anche un’altra invenzione nostrana: la staffetta. Due campioni simbolo del calcio dell’Italia rinata grazie a talenti nati sotto i bombardamenti. «Mio padre si chiamava Valentino Mazzola. Io non sapevo chi fosse per gli altri. Per me era solo mio padre. Quando a Torino passeggiavo con lui, a Via Roma, tutti lo fermavano e gli parlavano. Io allora gli stringevo forte la mano perché avevo paura che gli volessero far male. Mi portava allo stadio Filadelfia quando si allenava con la sua squadra che tutti chiamavano, doveva esser vero, il “Grande Torino”. Io mi ricordo che avevo un fuciletto a tracolla che era il mio orgoglio. Non lo avrei lasciato per nulla al mondo. Ma quando vedevo un pallone perdevo la testa. E allora mi mettevo a tirare rigori e a dribblare con il fuciletto sulla spalla. Giocavo con le figlie del magazziniere e con quelle di Grezar. Ero felice, allora».

Lei come cominciò a giocare?
«A parte le esibizioni col fuciletto io ricordo che a fine allenamento tiravo i rigori a Bacigalupo che, in verità, mi faceva segnare. Quando tornai a vivere con la mia mamma cominciai a giocare molto. All’oratorio, in piazzetta, appena si poteva io correvo appresso a una palla. Mia madre e mia nonna facevano le orlatrici e si sedevano fuori a lavorare. Io potevo così giocare tranquillo nel vicolo, largo non più di due metri, dove, con mio fratello, facevamo i gol di testa e di piede. Giocavamo anche in piazza, dove c’era un carcere. Dalle finestre delle celle i detenuti facevano il tifo. All’oratorio c’era don Giordano, un vero appassionato di calcio. Noi lo chiamavamo Dindondano e lui per farci giocare aveva chiuso una strada. Dietro le porte che aveva montato c’era, da una parte, l’uscita di sicurezza del cinema del paese, dall’altra la fermata dell’autobus. Se poi tiravamo troppo forte e colpivamo la vetrina del pasticciere lui ci bucava il pallone. Ma c’erano anche le catacombe e se il pallone finiva lì sotto a noi faceva paura andarlo a prendere».

C’era doping ai suoi tempi, come molti, compreso Ferruccio, hanno sostenuto?
«Le cose sono vere. Io ad un certo punto cominciai ad avere, in campo, dei fortissimi giramenti di testa. Andai dal medico che mi fece fare tutte le analisi e mi disse che dovevo fermarmi, che avevo problemi grossi. Mi disse che dovevo stare fuori almeno sei mesi. Ma questo Herrera non lo voleva. Da dove nascevano quei valori sballati? Non lo so. Ma so che, prima della partita, ci davano sempre un caffè. Non so cosa ci fosse dentro. Ricordo che un mio compagno, Szymaniak, mi chiese se prendevo la simpamina. Io non sapevo cosa fosse ma qualcosa che non andava, qualcosa di strano, c’era».

Quale è stato il momento più bello che ha vissuto nell’Inter?
«La prima finale di Coppa dei Campioni con il Real Madrid. Deve sapere che noi non avevamo la tv. Si andava all’osteria e, se consumavi una spuma, potevi vedere la partita. Tutte le finali della coppa prima le giocava o vinceva il Real. Io ero innamorato di Alfredo Di Stefano che tutti dicevano giocasse proprio come papà. Lo adoravo: elegante, tecnico, sempre con la testa alta. Al Prater me lo vidi davanti all’improvviso, mentre aspettavamo di scendere in campo. E restai imbambolato. Per me era un divo della tv. Finché Suarez mi batté sulla spalla e mi disse “Noi scenderemmo in campo, tu resti qui a guardare Alfredo?”. Feci anche un gol, quella sera. In verità non voluto, quasi per caso, ma non fa nulla. Festeggiai in modo plateale, per me inusitato, non la finivo più. Sempre Suarez mi disse “Guarda che se non smetti questi ce ne fanno quattro”».

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