Inter, il senso di coppa

Leggi il commento sul momento dell'Inter e di Simone Inzaghi, tra campionato e una Champions League da onorare
Ettore Intorcia
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Tra due settimane - basterà non perdere in Portogallo - Simone Inzaghi potrebbe riportare l’Inter tra le prime otto d’Europa, raggiungendo quei quarti di Champions invano inseguiti negli ultimi dodici anni. Nel frattempo è già riuscito a superare l’ostacolo del girone contro il quale era andato a sbattere persino Conte, poi finalista di Europa League al primo anno ma clamorosamente fuori da tutto nella stagione dello scudetto.

Meglio prendersi del tempo

Dunque, meglio prendersi del tempo: il fin troppo scontato processo istruito ai danni del tecnico nerazzurro dopo la debacle di Bologna potrebbe vedere certe argomentazioni dell’accusa spazzate via dalle nuove prove che arriveranno dalla coppa più coppa che c’è. Detto questo, la prospettiva Champions da sola non basta come attenuante. Anche perché, paradossalmente, quanto lontano l’Inter riuscirà ad andare in questa edizione conterà relativamente se i nerazzurri non riusciranno a qualificarsi alla prossima Champions, unico obiettivo di un campionato buttato via prima ancora di iniziare: quattro sconfitte nelle prime otto giornate sono un lusso che non ci si può mai permettere, men che meno se si fa la corsa sul Napoli dei record. Ecco, un paradosso: Inzaghi è l’unico allenatore ad aver battuto Spalletti in questo campionato, eppure è a 18 punti di distacco. Vuol dire che, scontro diretto a parte, nelle altre 23 gare la capolista ha raccolto 21 punti in più rispetto all’Inter. Sette vittorie contro le sette sconfitte dei nerazzurri, che sono troppe persino per chi deve entrare in zona Champions, figuriamoci per chi vuole provare a vincere lo scudetto.

Continuità contro discontinuità

Continuità, discontinuità, il tabellone contro il girone unico. «Inzaghi è un allenatore da coppe, non da lunga distanza», la sentenza prêt-àporter. C’è certamente un elemento di verità, il fatto che sia specialista di coppe, ma il palmares dovrebbe essere motivo di vanto e non l’appiglio per alimentare certi pregiudizi. Anche perché il suo lavoro pregresso alla Lazio non può essere parametrato, appunto, sulla lunga distanza dello scudetto, sarebbe ingeneroso. Diverso il caso dell’Inter: magari formalmente rivincere il titolo non è quello che la società gli ha chiesto come obiettivo minimo al primo anno (però al secondo sì) ma in fondo è quello che i tifosi s’apettavano e s’aspettano sempre. È il blasone, bellezza. Non essere nemmeno lontanamente competitivi come quest’anno non è contemplato.

Conte, Inzaghi e quello scomodo paragone

Il vantaggio di arrivare dopo Conte è trovare un gruppo mentalmente orientato al sacrificio e alla vittoria; lo svantaggio è essere condannati a un perpetuo e scomodo paragone. Solo che Simone non ha trovato la stessa Inter dello scudetto. Dzeko per Lukaku, Dumfries per Hakimi, un Eriksen in meno in mezzo al campo: al primo anno, con queste condizioni di partenza, ha saputo costruire una squadra per certi versi anche più piacevole da vedere, affrancata dalla mossa scontata della palla addosso a Lukaku, e con alcune soluzioni innovative come gli inserimenti off ensivi di Bastoni. Due trofei in bacheca ma anche la sensazione fortissima di aver buttato via lo scudetto tra il derby di ritorno e il pasticcio del Dall’Ara. La sua seconda Inter è ancora più figlia di un compromesso tra le ragioni del campo e quelle del bilancio: la rinuncia a Dybala per riprendersi Lukaku, che non è quello dell’anno dello scudetto e su questo siamo tutti d’accordo; un investimento su Asllani per ora sconfessato dal tecnico, che come vice Brozovic ha adattato Calhanoglu; operazioni di contorno (tipo Bellanova) che alla fi ne non hanno garantito un valore aggiunto nemmeno in termini di rotazioni. In due anni un solo errore di valutazione in fase di mercato può essere addebitato esclusivamente al tecnico: Correa. Ma non è colpa del Tucu - fuori per infortunio - se i compagni vanno in tilt con questa sconcertante facilità.


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