Chinaglia, il mito che non riusciva a lasciare la Lazio

La vicenda Bielsa ha stabilito il punto più basso del rapporto tra tifoseria e dirigenza. Eppure parliamo di una società che nella sua storia ha vissuto momenti emozionanti. Ecco un viaggio appassionante che serve a tutti, anche al presidente Lotito, per ricordarsi sempre cosa vuol dire “la lazialità"
Chinaglia: 24 gol 1973/1974© ANSA
Daniele Rindone
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ROMA - Giocava con lei e per lei ha messo in gioco la vita, i soldi, il cuore, tanto da affaticarlo. Andava via e non riusciva ad andare avanti. Tornava sempre indietro, dalla Lazio, la sua America. Ce l’ha fatta a tornare per sempre, ma solo alla fine, troppo tardi. Giorgio Chinaglia ha impiegato una vita ad andare e tornare per restare dove voleva, in nessun altro luogo che Roma. E’ bello pensare che Tommaso Maestrelli, come fosse destino, gli ha offerto l’ultima ospitalità nella città in cui ebbe origine la loro promessa d’amicizia. Oggi riposano insieme. Long John, inseparabile e insuperato mito, può anche aver cercato nuova fortuna andandosene, ma non ha mai trovato pace lontano dalla Lazio. Chi lo viveva provava tristezza nel vederlo partire.

Tutte le sue fughe facevano pensare che non sarebbe più tornato a casa. E invece sì, tornava orgogliosamente, ossessivamente, anche problematicamente. Dirompente, sorprendente, incontenibile com’era in area di rigore. Ogni uscita di scena preparava un nuovo ingresso da protagonista che a sua volta trovava la perfezione in un’altra uscita e in un altro ritorno. Forse gli addii erano un modo per ribadire che il posto nella Lazio era solo suo, forse gli piaceva farsi aspettare e accogliere sempre nuovamente. Così la prima volta provò ad andarsene nell’estate 1975. Maestrelli era già malato. La moglie di Giorgio, Connie, s’era trasferita nel New Jersey, scappò da Roma, schiacciata da pressioni esterne. Chinaglia da tempo pensava alla carriera negli States, pensò di fuggire anche lui, di anticipare i tempi. In America giocò un’amichevole con l’Hartford e fece scalpore nelle tv.

I Cosmos di New York, ingaggiato Pelè, gli proposero un contratto, era la Warner Bros a gestire il club americano. La Lazio s’oppose, il presidente Lenzini minacciò provvedimenti, tuonò. Giorgione si convinse a tornare, ma non servì convincerlo, il richiamo fu forte. E a Fiumicino fu bagno di folla. Maestrelli era stremato dalla malattia, non allenava, c’era Giulio Corsini in panchina. Lo scontro con Corsini fu immediato, Giorgio si calmò solo con il ritorno di Tommaso alla guida della Lazio. Ma l’addio era nell’aria, si concretizzò il 25 aprile 1976, dopo la partita contro il Toro. Da lì a poco se ne sarebbe andato anche il Maestro, per sempre. Giorgio va in America, ai Cosmos, dopo aver segnato gol a raffica (122 totali in biancoceleste). Il biglietto è di andata e ritorno, ovvio.

A 36 anni, in una mattina di maggio del 1983, ascolta alla radio Milan-Lazio, si gioca in B, i biancocelesti perdono 5-1, rimane folgorato dalla notizia. Non gli resta che rientrare da presidente, è pronto a svenarsi, a torturarsi, per il bene laziale. La famiglia è contraria, lui segue l’istinto d’onore. Contatta il presidente Gian Chiarion Casoni, chiede la maggioranza della società. Chinaglia sbarca a Roma, è un nuovo tripudio. La Lazio è sua, cerca aiuti, in tutto servono 2 miliardi di vecchie lire. E’ nominato presidente, è ciò che ha sempre sperato d’essere. Il passo è più lungo della gamba, lo sa anche lui e forse sa pure che non ce la farà a resistere per via dei debiti esistenti. Chinaglia acquista Joao Batista e deve vendere due appartamenti a New York per portarlo a Roma. Il progetto sportivo ed economico fallisce, cede la società a Franco Chimenti, poi subentrano i fratelli Calleri e Renato Bocchi.

Il terzo ritorno è del 2006, da portavoce di una cordata che vuole acquisire la Lazio di Lotito. Giorgio ci riprova, ne consegue tutta la diatriba conosciuta, la vicenda giudiziaria, lo scandalo. Sei anni dopo, l’1 aprile 2012, Long John muore in Florida, tradito dal cuore a 65 anni. L’ultimo ritorno a Roma è datato 15 settembre 2013, i compagni di una vita lo ricongiungono a Maestrelli nel cimitero di Prima Porta. Giorgio Chinaglia ha incarnato l’orgoglio che spinge a crederci sempre, a sfidare i più forti per diventare i migliori. La sua esistenza, comunque la si giri, rimanda il fascino del personaggio, è stata alimentata da consacrazioni e dissacrazioni. A Chinaglia s’è potuto rimproverare tutto e perdonare tutto. Impunemente e meritoriamente ha avuto diritto a debolezze e fragilità perché da laziale non ha mai dimenticato il dovere di esserci a tutti i costi. Ha cambiato il tifo laziale, è stato identitario, ha sempre agito per unire e non per dividere.

Tante volte ha dato da pensare con i suoi estremismi, ha sbagliato a fidarsi di qualcuno, dei cattivi contatti, ma non ha mai smesso di regalare speranza, di far sorridere anche quando c’è stato da piangere. La sua libertà è stata la libertà della Lazio, così la sua forza vincente e il suo carattere mai arrendevole. La Lazio, Giorgione, l’ha fatta rispettare in campo, non permetteva oltraggi, non conosceva altro che le parole vittoria o come minimo rivincita. Ancora si sente forte il grido di battaglia che faceva rima con Chinaglia, il cognome che risuonava, l’urlo fisiognomico che diventava striscione da stadio, inno di un popolo che ha sempre trascinato oltre. Poi venne il tempo di Long John nella storia, l’uomo che senza Lazio si sentiva fuori posto, fuori luogo.


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