Oddo: «Il mio calcio tempo e caos»

Il tecnico del Pescara: ««Solo se giochi veloce trovi gli spazi: la mia squadra ha idee e non schemi fissi»
Oddo: «Il mio calcio tempo e caos»© Getty Images
Ettore Intorcia
4 min

ROMA - Spazio, tempo, caos. Quando Massimo Oddo descrive il suo calcio, che poi è il suo universo, sembra di sfogliare un manuale di fisica. «Più veloce giochi, più spazio hai», dice per sintetizzare la sua filosofia di gioco che l’ha portato negli ultimi due anni a giocare una finale play off di B e a vincerne un’altra la scorsa estate, guadagnado sul campo il diritto a debuttare in panchina in Serie A. Dieci anni dopo, giusti giusti, il trionfo di Berlino.

Oddo, la sosta è alle spalle: quanta voglia ha di rituffarsi nel campionato?
«Tanta, perché le cose stanno andando bene. L’impatto con la Serie A si pensava potesse essere molto difficoltoso, invece è stato non dico agevole ma positivo: abbiamo retto il confronto con due squadre, Napoli e Sassuolo, che sono probabilmente le più organizzate del campionato e pure quelle che hanno più continuità rispetto all’anno scorso. Le abbiamo affrontate a viso aperto e, al di là del risultato, abbiamo giocato a tratti molto bene. E’ la nostra strada: portare avanti l’idea di calcio mostrata in B anche in Serie A».

Dopo Napoli e Sassuolo, molti si aspettano una bella prova anche con l’Inter. Magari uno scherzetto...
«Ci proviamo, l’idea è imporre sempre il nostro gioco. Però siamo in A, quindi ci saranno tante partite in cui ci riusciremo e altre nelle quali gli avversari saranno più bravi di noi. Non abbiamo paura, giochiamo senza nasconderci. La mia squadra si difende solo quando gli altri sono superiori: con il Napoli, ad esempio, nel secondo tempo ci siamo abbassati, ma è normale». De Boer scopre la Serie A e riaccende il dibattito sulla scuola italiana. «Che sicuramente continua a sfornare allenatori bravi, è palese, e lo fa anche in B e in Lega Pro. A livello tattico abbiamo pochi rivali, però ci sono anche stranieri che hanno fatto benissimo, come Mourinho da noi o Guardiola in assoluto. Non solo è diverso il nostro calcio, ma è diversa la nostra cultura: un allenatore straniero deve adattarsi ed essere bravo a livello psicologico. Serve apertura mentale, come per noi quando andiamo all’estero ».

Dicono che i nuovi italiani in Premier, per esempio, ci stiano andando piano con la tattica, lì non sono abituati...
«A parte quello, devi adattarti anche a cultura e abitudini. Come il “day off” inglese: il mercoledì non ci si allena, ad esempio. E non esiste la doppia seduta quotidiana. Per questo pochi calciatori inglesi si sono adattati all’Italia».

Come spiegherebbe la sua idea di calcio?
«Nei limiti del possibile cerco sempre di privilegiare la qualità rispetto alle altre caratteristiche. Mi piace una squadra che gioca a terra, in velocità, e per fare questo ti servono giocatori bravi tecnicamente e intelligenti tatticamente. Il mio modo di vedere il calcio non è schematizzato, non è un gioco ricorrente con le solite azioni da sviluppare, ma lascia molta libertà ai calciatori. Insegno ai miei a dare più soluzioni al portatore di palla e al play maker a trovare la giusta linea di passaggio».

Più concetti di gioco che schemi, dunque.
«Esatto. Chi porta palla deve avere più soluzioni tra cui scegliere la migliore. Per fare questo, si parte dal concetto di smarcamento, di occupazione degli spazi, del non ricevere la palla da fermo, sui piedi. Bisogna dare al compagno un motivo per farsi passare la palla».

Leggi l'intera intervista sull'edizione odierna del Corriere dello Sport


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