Scarnecchia: Dalla Roma alla cucina, ora sono chef

L'ex ala di Liedholm si racconta in un'intervista esclusiva
10 min
Una vita di corsa, come era in campo, da calciatore. Sulla fascia Roberto Scarnecchia in certe partite era incontenibile. Era la Roma di Liedholm, che stava diventando grande, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Scarnecchia era un’ala, una vecchia ala. Dribbling e corsa, pochi gol. Liedholm lo portò nel calcio che conta dopo una lunga trafila nell’Almas. Dopo la Roma altre esperienze, senza grandi bagliori. Milan, Napoli. Chiusura a Barletta. Poi tanti ruoli, mai banali. Docente, allenatore, imprenditore, commentatore televisivo. Infine da qualche anno Scarnecchia si è fermato. Oggi fa il cuoco. Si è ritagliato un nuovo spazio davanti ai fornelli, dopo essersi costruito anche una nuova vita sentimentale, dopo essere stato sposato con la persiana Parvin Tadjk, l’attuale moglie di Beppe Grillo, dalla quale ha avuto due figli. Scarnecchia si racconta volentieri, tra ricordi e progetti.

Com’è nata la passione per la cucina?
«Tutto è cominciato stando vicino a mia madre, Giovanna, per tutti Gianna. Lei cucinava benissimo e i miei amici al mare volevano sempre venire a mangiare da noi, da mamma Gianna. Avevamo una villa a Lavinio, quando tornavano dal mare e passavano davanti a casa mia sentivano i profumi provenienti dalla cucina. La frittata di zucchine e patate di mia madre era indimenticabile. Lì è nata la mia passione, così anche quando giocavo i miei compagni di squadra dopo gli allenamenti dicevano spesso: «Andiamo da Roberto». Poi nel 1999 mio padre ha aperto un ristorante alla Romanina, si chiamava “la casa”. Avevo smesso di giocare, facevo l’aiuto cuoco, ero già bravino...».

Cosa cucinava per i suoi compagni ai tempi della Roma?
«Ancelotti veniva spesso. Carlo ama la cucina parmigiana, la pasta, anche i piatti romani: amatriciana, cacio e pepe. Carlo è sempre stato una bella forchetta. Ma venivano anche gli altri. Dopo l’esperienza al ristorante decisi di perfezionarmi. Ho fatto il master di cucina, mi sono specializzato, ho studiato. Uno chef deve conoscere tutti i piatti, gli alimenti, l’acido, il basico, il dolce e il salato. A me piace inventare tanti piatti riprendendo quelli tradizionali nella loro semplicità. Oggi vediamo questi chef che fanno accostamenti arditi... Io sono più tradizionalista. Ma provate a mischiare in una pasta al sugo carote con le nocciole. Oppure gustate l’equilibrio tra la provola affumicata e il salmone affumicato. Oppure la pasta lunga con il tartufo nero, crema di mascarpone e salmone. Non ho una preferenza specifica nei piatti, faccio anche i dolci, ha successo il mio strudel alla nutella, oppure un tiramisù con una cialda tipo lingua di gatto. Tutto preparato espresso. I miei piatti partono dalla tradizione con piccole rivisitazioni, senza andare in campi difficili, dove lascio cimentarsi grandi chef come Davide Oldani e Sergio Mei. Mi piace molto anche Bruno Barbieri. Una volta Barbieri ha proposto un piatto che gli ha suggerito una casalinga, lo ha rivisitato, ma ha dato i meriti alla signora. Se entra una vecchietta dentro al ristorante e ti dice metti una foglia di alloro in un piatto, è meglio che ce la metti. L’umiltà è una qualità importante anche in cucina».

Dove lavora oggi Scarnecchia?
«Ho un ristorante a Genova, MarinaPlace e un altro sopra a Ovada, a Carpeneto, il Vino di Ismàro, in un albergo, Villa Carmelita, a cinque stelle. C’è una cucina molto raffinata».

E poi presto tornerà a Roma. Da chef
«Ho un progetto, apriremo a breve un nuovo ristorante, nella zona di piazza Mazzini. Aspetto tutti i miei amici del mondo del calcio».

Ne ha ancora molti?
«Sono in contatto con tanti amici. Non ho mai creato problemi a nessuno. Sono rimasto legato a questo ambiente, alleno in serie D, il Derthona. La domenica lascio i fornelli per andare in panchina. Magari un giorno la Roma mi chiama, ma per fare lo chef...».

Cosa le manca del calcio?
«Ho ancora tantissima voglia di seguire questo sport, nonostante i grandi cambiamenti che ci sono stati mi è rimasta la grande passione. Per questo ho cercato di abbinare il calcio ad altre attività e ancora oggi faccio l’allenatore. Posso diventare il più grande chef, ma resto sempre l’ex calciatore. E sfrutterò il fatto di essere stato un calciatore».

Come è arrivato a fare il cuoco professionista?
«Prima ho fatto un’altra strada. Ho studiato, sono docente formatore. Mi sono iscritto a scienze e tecniche della comunicazione alla Bocconi, come coaching non avendo la cattedra tenevo i corsi di formazione per i crediti formativi. Posso insegnare agli studenti gli atteggiamenti, l’autostima, la leadership, il linguaggio del corpo. Quando dopo una lezione ricevo applausi mi sento gratificato. Questa è la mia vita. Poi ho avuto la fortuna di studiare in America. Ho fatto un master per insegnare alla Business school a Harvard, mi sono specializzato alla School education human development marketing e communication. In quella occasione partecipai anche a un Master chef, dal ‘92 al ‘94 e da lì è esplosa la mia passione. Il primo locale nel quale ho lavorato era una caffetteria».

Dalla comunicazione ai fornelli. Ci spieghi meglio.
«Comunicazione è anche l’espressione di un piatto, cucinare è spirito di aggregazione. Quando giocavo in serie A all’interno di un team davo una prestazione davanti a sessantamila persone, trasmettevo agli altri qualcosa. E’ sempre un dare. Così come è dare far mangiare bene gli altri, grazie alla passione ereditata da mia madre. Io amo i piatti semplici. Oggi mettono i mirtilli e il timo dappertutto. Non mi piace dare troppa enfasi al ruolo del cuoco, a volte penso che non bisognerebbe prendere troppo sul serio la cucina. Invece oggi ci sono tutte queste trasmissioni e la gente piange se non riesce a preparare bene un piatto».

Roma le manca?
«Molto. Quando posso torno. Per questo ho deciso di aprire un ristorante anche a Roma, voglio una marea di gente che venga a trovarmi. Non mi interessa il guadagno, ma riproporre lo lo spirito di mia madre. Il posto che ho scelto è spettacolare, per scaramanzia ancora non lo rivelo».

Lei lasciò la Roma appena prima della conquista dello scudetto. Rimpianti?
«Avevo poco più di venti anni, a quell’età pensi che puoi spaccare il mondo. Da giocatore credevo di poter vincere da solo, invece vince il gruppo. Mi dispiace essere andato via proprio quell’anno. Ma ho fatto la mia carriera, se avessi avuto la testa che ho oggi sarebbe stato diverso. Fossi rimasto a Roma oggi sarei ancora lì».

Poi qualche problema... di cuore.
«Qualche anno fa ho subìto un piccolo intervento. Avevo una leggera fibrillazione, mi hanno rimesso a posto il battito. Ma ora ho ripreso anche a giocare con gli amici. Anche a calcio tennis. Massacrante».

Centodieci partite in serie A, solo quattro gol. Segnava poco Scarnecchia. Un gol però è rimasto nella storia. Di testa, in ginocchio, a Perugia.
«Me lo ricordo, eccome se me lo ricordo. Ne ho fatti pochi, ma belli. Quella volta capii che ci sarei arrivato solo in quel modo, sul secondo palo. Ci fu una grande palla di Bruno (Conti, n.d.r.) anche se non ho mai saputo se voleva tirare in porta o fare un cross. Ci abbiamo scherzato per anni».

La sua carriera di calciatore ebbe una svolta con Liedholm
«Il Barone è stato molto importante per me. E’ stato fondamentale come uomo. Ero molto giovane e giocavo all’Almas. Andai a provare alla Roma. C’era lui che stava per andare al Milan e mi ritrovai con Giagnoni. Ma disse: “Non fatevi sfuggire questo ragazzo”. Gli insegnamenti di Liedholm sono adatti al calcio moderno, la sua filosofia era straordinaria. Me la sono sempre portata dietro. Non le sue superstizioni. A parte un paio di scarpini. Ma a lui devo tanto. Sono nato a San Giovanni in via Pandosia, mi diede la maglia giallorossa che per me era il massimo».

Una vita con mille esperienze, molte felici e altre no
«Ho sempre cercato di fare del mio meglio. Ho cercato di essere sempre me stesso. Ho avuto una vicenda giudiziaria poco piacevole, sono stato sei giorni in isolamento. Coinvolto in un traffico di stupefacenti, io che non ho mai fumato una sigaretta. Poi sono uscito con le scuse di tutti, scagionato da tutto. Non ha dato la colpa a nessuno. Posso guardarmi allo specchio, non ho niente da rimproverarmi. Però quando è successo sono finito in prima pagina e quando la vicenda si è conclusa è stata liquidata in quattro righe. L’Italia è strana, ti dà e ti toglie».

Ha chiuso la carriera di calciatore a Barletta, tra il 1986 e il 1988
«Mi sono calato in provincia con umiltà, ho vinto un campionato di C e ci siamo salvati in B all’ultima giornata».

Oggi è ancora tifoso della Roma?
«Sì, come potrei non esserlo? Quest’anno la Roma è stata straordinaria, mi sta facendo vivere momenti che non ricordavo dai tempi di Spalletti. Garcia è un ottimo allenatore, ha ricreato un gruppo. Totti è fantastico, De Rossi è un altro leader. Mi fa piacere che qualche tifoso mi accosti a Gervinho. Lui segna più di me, ma come corsa un po’ mi ricorda. Credo che questa squadra possa dare soddisfazioni anche l’anno prossimo».  


© RIPRODUZIONE RISERVATA