ROMA - Era la Roma dei gemelli dell’antigol. Lui e Sergio Santarini, che ancora vengono alla mente quando tra i tifosi non bambini si parla di difesa. «Siamo andati bene. Ma anche quelli di adesso funzionano. Se ci fossero tutti, intendo. Mi piacerebbe vedere insieme Manolas e Castan». Aldo Bet di Santarini non era gemello, era cognato. Coppie di ferro che quando il calcio passa tendono ad arrugginirsi.
Calciatore di entrambe e tanto bastava. «Erano altri tempi, forse migliori. Ora firmi contratti di tre anni al massimo, giochi bene il primo e poi comincia il mal di pancia. All’epoca ti toglievi la maglia solo quando cambiavi squadra e per staccarla serviva il chirurgo». In mezzo c’è stato un passaggio da Verona alla modica somma di 400 milioni di lire. «Un’enormità per un club di provincia e per un difensore. Il punto è che la Roma doveva prendere Prati ma non poteva mandarmi direttamente al Milan». Giochi d’immagine a cui Bet era allergico. Il destino volle fare di lui uno dei pochissimi a beccare due retrocessioni a tavolino, senza coinvolgimento diretto. Ma questo con il giallorosso non c’entra. «A Roma ho cominciato davvero, ho conosciuto il bello e il duro del mestiere, la Nazionale e la contestazione non appena scendevamo sotto il terzo posto. Venivo da Mareno di Piave, Treviso, entroterra veneto, al paese non c’era un campo sportivo e giocavamo nella piazza della chiesa». Era timido e chiuso, poi si sciolse e prese a entrare in confidenza con i compagni. Mai con il gol: zero in campionato. «Herrera mi diceva: segui la punta anche quando va in bagno. Allora gli attaccanti magari andavano in bagno ma non tornavano mai a difendere». Gli restano la Coppa Italia appena arrivato e i derby rabbiosi. «Vincere con la Lazio era come essere campioni d’Italia». Non basta più e supponiamo sia una fortuna.
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