Perdere lo stadio sarebbe un delitto sociale

La parte assolutamente lesa è la comunità dei tifosi che da due giorni s’interrogano sgomenti su quanto da sei anni li illude e li tortura
Giancarlo Dotto
3 min

ROMA - Mettiamocelo bene in testa. Con tutta la lucidità e tutta la generosità di cui siamo capaci. Ci sono storie che ci trascendono. Lo stadio della Roma è una di queste. Non possono avere nulla a che spartire con le cronache poveracce dei pochi o tanti “tengo famiglia” che da sempre ammorbano questo Paese. Gentaglia inetta che trova nella politica quello che i topi trovano nelle fogne, il modo più sordido e comodo di alimentarsi. Non è il sistema Parnasi o chi per lui, ma è il sistema Italia. La maledizione disperante che da sempre ci divora da dentro. Come certe malattie. In nessuna nazione come la nostra il genio creativo e la pulsione a delinquere nel migliore dei casi, la mediocrità spesso, si scontrano ogni giorno con una rappresentazione così feroce e manichea del Bene e del Male. Altro che terra di mezzo! I migliori e i peggiori convivono da sempre in questa terra estrema. E quando i peggiori hanno via libera, i migliori scappano. Qui non c’entra più la Raggi, non c’entra Pallotta, non c’entrano gli americani o i pentastellati, i Codacons e i Codadipaglia, l’infinito schiamazzo che si affolla dal principio a dettare e a confondere la trama di questo teatro dell’assurdo chiamato stadio, ognuno meschinello a giocare la sua parte in commedia. E non c’entrano più nemmeno la Roma o il Comune. A questo punto è persino irrilevante che siano loro le parti evidentemente lese di questo ennesima, maleodorante merenda. Basta girare per la città per sapere. Questo stadio s’ha da fare, al di là del bene e del male, perché la parte assolutamente lesa è la comunità dei tifosi. Che da due giorni s’interrogano sgomenti su quanto da sei anni li illude e li tortura, arrivando a scoprire che cosa significhi essere oggi Sisifo sulle rive del Tevere.

No, non è in ballo il destino di Pallotta e del suo business o della Raggi e del suo partito, ma l’ennesimo buco nero, questo sì inasfaltabile, di una città dove tutto si disgrega e niente più si aggrega. Dove a ogni incrocio rischi l’insulto, se sei fortunato, o un colpo di cric in mezzo alla fronte perché la dirompente visione dell’altro come nemico avanza a passi giganteschi. Perdere l’occasione di questo stadio sarebbe, questo sì, un delitto emotivo e sociale e chi se ne frega se nessuna legge lo contempla. In certi casi, sapere è un dovere che prescinde dal capire. E ai tristemente pensanti che dicono stadio uguale panem et circenses, rispondiamo che si vive anche di questo, soprattutto di questo. E, tanto per non esagerare, uno stadio pieno di cori e di afflati è come un tocco di Federer, un’esperienza religiosa. Non c’è bisogno di andare lontani nel tempo. L’addio di Francesco Totti.


© RIPRODUZIONE RISERVATA