Roma, dal prodigio al miracolo

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Roma, dal prodigio al miracolo© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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Atalanta-Roma è la prova della natura umana e non divina di Mourinho. La razionalità tattica, il carattere, il dominio nel possesso palla, gli affondi verticali eseguiti con automatismo esemplare sono un prodigio incarnato. Ma una cosa è un prodigio e un’altra è un miracolo. Non si può chiedere un miracolo al tecnico portoghese, se è costretto a sfidare l’aggressività di Gasperini con una squadra costantemente incompleta, senza attaccanti capaci di finalizzare, con Dybala al venti per cento, con la necessità di far rifiatare Matic ed El Shaarawy, con il rimbalzo sul palo di Pellegrini che riporta la palla in gioco e, da ultimo, con un portiere che cade nella seconda papera della stagione. Lo Special ha fatto ciò che è nella potestà di un grande tattico e un grande motivatore, ha portato una macchina incompiuta e difettosa a simulare la perfezione, in maniera così verosimile da apparire reale. Perché il quarto posto che, a dispetto di tutti questi limiti, la Roma sconfitta a Bergamo difende in classifica, a pari merito con il Milan, è tutt’altro che una fantasia. È piuttosto una frontiera fragilissima, conquistata grazie al magistero di un allenatore capace di pretendere e ottenere il meglio da un materiale umano impari rispetto alle ambizioni del club e della piazza.


La rappresentazione plastica di questo divario è il confronto tra Zapata e Pasalic da una parte, Abraham e Solbakken dall’altra. I due attaccanti giallorossi hanno più occasioni dei rivali atalantini, ma la loro capacità di sfruttarle è nettamente inferiore. Eppure il centrocampo di Mourinho gira meglio e macina gioco per tutta la gara, ispirato da un Pellegrini ritornato nella condizione dei tempi migliori. Ma la Roma si mostra ancora una volta senza spine, è Dybala-dipendente in una misura così radicale da imporre all’argentino contratto, e poi azzoppato, di restare in campo per fare con un piede solo ciò che ai compagni non riuscirebbe neanche di pensare. È insieme la prova della sua classe, ma anche del deficit creativo che affligge la Roma negli ultimi trenta metri. Su questa contraddizione, per così dire strutturale, l’impresa di Europa League cade come un onere aggiuntivo che rischia di rivelarsi una zavorra sul futuro del campionato. Perché una partita come quella vinta contro il Feyenoord ha un costo agonistico e mentale immane. Le sette gare che mancano al finale, e da cui dipendono le chance della qualificazione in Champions, sono la scommessa più ardua nell’avventura capitolina del tecnico portoghese, che ieri ha festeggiato la sua centesima panchina giallorossa. Perché in meno di un mese la Roma giocherà sette volte, cioè una ogni tre giorni, e regolerà subito i conti con le rivali per l’Europa affrontando a distanza di una settimana Milan e Inter all’Olimpico, con in mezzo la trasferta di Monza, per poi gettarsi nell’impresa delle semifinali di Champions. Una prova del fuoco che, nelle condizioni date, richiede davvero un salto dal prodigio al miracolo. Poiché essere smentiti è un privilegio intellettuale, non ci resta che sperare che accada.


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