Italia femminile di volley, 20 anni fa il miracolo di Berlino

Il ricordo di quel fantastico giorno del trionfo delle azzurre
Italia femminile di volley, 20 anni fa il miracolo di Berlino© Fipav
Pasquale Di Santillo
6 min

Che giorno quel giorno. E oggi, vent’anni e spiccioli dopo, a guardarsi indietro, non ci poteva essere settimana migliore per festeggiare i vent’anni da un trionfo che ha fatto - e ancora fa - storia. Già, non ci poteva essere preludio migliore per celebrare l’oro mondiale conquistato esattamente il 15 settembre del 2002 dalla Nazionale femminile, che l’altra fantastica cavalcata iridata portata a termine domenica scorsa dalla banda dei ragazzi di Fefè De Giorgi, capaci anche loro di regalare il poker Mondiale all’Italia a 24 anni di distanza dall’ultimo titolo del 1998 a Tokyo. Il segno, inequivocabile, della forza di un movimento che nelle prossime settimane cercherà di allungare questa storia infinita nella rassegna mondiale delle ragazze di Mazzanti. Ma che giorno quel giorno di vent’anni fa a Berlino. Quando Elisa Togut mise a terra l’ultimo pallone della finale con gli Stati Uniti fu come se, insieme al pallone, e mentre lei impazziva di gioia agitando le braccia in maniera frenetica, portasse con se l’urlo impazzito di generazioni di pallavoliste facendo. E parliamo di tante ragazze, tutte quelle che le hanno precedute nel tempo. Perché quell’oro non fu solo il primo (e unico per il momento) successo Mondiale delle ragazze, ma perché decretò in via definitiva la consacrazione dello sport femminile - di cui la pallavolo è disciplina regina - nella vecchia cultura sportiva del nostro Paese, restituendo alle ragazze in primo luogo e poi a tutto il movimento sportivo, la dimensione corretta di quella che è (o dovrebbe essere) la considerazione dei media e di tutti gli appassionati per uno sport al femminile.

Ma tornando a quel pallone, a quella schiacciata di Elisa che fece felici in tantissimi, compreso chi scrive che era in tribuna stampa a Berlino e si portava dietro più di un decennio di delusioni e batoste, dopo l’illusione del bronzo europeo del 1989 a Stoccarda con Sergio Guerra in panchina, c’era davvero tantissima roba. La conclusione di una lunga marcia avviata tanti anni prima e che, proprio dopo quel bronzo, iniziò una progressione, una crescita indiscutibile. Prima con Marco Aurelio Motta, poi con Bosetti, infine con Velasco e Frigoni per arrivare a Bonitta che fu sicuramente bravo a raccogliere - mettendoci tanto di suo - il frutto del lavoro di chi l’aveva preceduto (come Velasco fece con quello di Skiba e Pittera al maschile). Ma è indubbio che nella crescita del movimento femminile, chi ha dato l’autentica scossa fu il combinato disposto tra l’arrivo - poco fortunato, in realtà, se ci si fermasse ai risultati - di Velasco sulla panchina azzurra delle donne e la scelta della Lega femminile, figlia dell’intesa del segretario generale Briani con lo stesso Velasco. La premiata ditta chiese e alla fine ottenne dalla Federazione la liberalizzazione del tesseramento delle straniere e la contemporanea creazione del Club Italia dov’è poi cresciuta la spina dorsale della nazionale Campione del Mondo a Berlino. Da quel momento è come se il già avviatissimo processo di selezione delle ragazze - il famoso piano altezza - fosse stato improvvisamente dotato di un boost, di un turbo. Perché nel 1998 Frigoni centrò il 5° posto iridato in Giappone, miglior risultato di sempre, nel 1999 arrivò il secondo bronzo europeo, poi la prima qualificazione olimpica - Sydney 2000 - fino all’insediamento di Bonitta che al netto di qualche scelta discutibile, più nei modi che nella sostanza, almeno in quella prima fase del suo mandato da ct, riuscì a forgiare il gruppo e a regalargli un gioco spumeggiante capace di portare a casa il primo argento europeo nella fantastica finale di Varna contro la super Russia di Karpol.

E poi arrivò quel giorno di vent’anni fa. A dire la verità, quel torneo giocato in Germania tra Munster, Brema, Stoccarda fino all’epilogo di Berlino. Un torneo immagine e somiglianza della storia delle donne che schiacciano, ritenuto da tanti, troppi il solito gruppo di belle ragazze, magari talentuose, ma incapaci di vincere. Una partenza sprint, cinque vittorie su cinque nella prima fase; la frenata inattesa nella seconda fase con due sconfitte con Russia e Cuba che per poco non ci costava l’eliminazione, evitata grazie al successo sulla Grecia e ai risultati delle altre squadre che ci offrirono sul piatto d’argento, grazie al favorevole quoziente punti, l’occasione della vita. Ecco, leggendo le interviste delle 11 azzurre protagoniste di quell’impresa raccontata nel libro appena uscito “Il Miracolo di Berlino” scritto a quattro mani con l’amico e collega Leandro De Sanctis, tutte hanno concordato che quella comunicazione del passaggio del turno grazie ai risultati altrui è stata la svola di tutto. È come se, lo scampato rischio dell’eliminazione con una buona dose di fortuna, avesse fatto scattare nella testa di tutto il gruppo la scintilla giusta, quella cioè capace di far esprimere al meglio, senza più pressioni né paure tutto l’infinito talento di ragazze che in mancanza di altri problemi avrebbero potuto senza dubbio vincere di più e sicuramente aprire un ciclo.

Da quel momento fu un crescendo senza fine, una vittoria dietro l’altra con qualità, convinzione, determinazione e cattiveria: prima nei quarti la Corea, schiantata, poi la Cina in semifinale annichilita di fronte a tanta qualità e continuità e poi arrivò quel giorno, quello della finale appunto con gli Stati Uniti. L’assenza della Phipps, colpita da una pallonata all’occhio nell’ultimo allenamento prima della partita, fu sicuramente un mezzo vantaggio, ma contro quell’Italia, quell’unione di intenti, quella convinzione non sarebbe stata sufficiente nemmeno la migliore Keba per strappare l’oro dal collo delle azzurre. Di quell’avventura resta il fantastico percorso, il ricordo struggente di Sara Anzanello che ci ha lasciati davvero troppo presto a causa di una patologia crudele e il testimone che di generazione in generazione passa ora nelle mani delle ragazze di Mazzanti che hanno la possibilità di continuare ad alimentare un sogno, vent’anni dopo.


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