Nuovi poveri e aiuti di stato

Nuovi poveri e aiuti di stato© Getty Images for IAAF
Ivan Zazzaroni
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Da tempo Milik ha dato la sua parola a Paratici, ora lo intriga il passaggio alla Roma, la squadra del cuore di chi gli ha fatto da padre (questi aveva in camera il poster di Batistuta in giallorosso) ma prima di decidere vuole (deve) attendere un segnale di qualsiasi genere da Torino. Edin Dzeko, quinto anno nella capitale e una semifi nale di Champions quale miglior risultato, non rifiuta a priori la corte di Pirlo, che lo preferisce al polacco, ma gradirebbe che fosse la Roma ad assumersi la responsabilità dell’eventuale cessione. Guido Fienga, però, si è fatto cinese: quello del centravanti non è un problema suo, visto che uno buono e caro, anzi carissimo, ce l’ha già, per cui siede sulla sponda del Tevere waiting for...

Nel frattempo ha trovato l’accordo con il Napoli per lo scambio con Under e Riccardi. Queste cose le sanno anche i muri ormai, sono la perfetta rappresentazione della stagione del calcio. Non solo del calcio italiano, ma di quello mondiale, nel quale a dominare sono due Stati e non - come invece dovrebbe essere - i club “convenzionali”.

Mi riferisco alle proprietà di Manchester City e Paris St. Germain, ovvero a Abu Dhabi, che detiene il 78% del pacchetto degli inglesi, e al Qatar dei francesi. Non a caso in un mercato in cui tutti, dallo United al Tottenham, dal Real al Barcellona, dalla Juve all’Inter, piangono allarmanti vuoti di cassa, City e Psg possono addirittura permettersi il sogno Messi: hanno risorse e soluzioni di pagamento illimitate.

In altri tempi si sarebbe parlato di concorrenza sleale (aiuti di Stato), nel calcio globale tutto è permesso. Sono partito da Dzeko e Milik proprio per sottolineare come a pochi giorni dall’apertura della sessione estivo-autunnale si stia parlando prevalentemente di scambi alla pari, di cifre un tempo considerate ridicole oltre che di clamorosi e polemici addii a costo zero: la liquidità è diventata un miraggio, la pandemia ha dato il colpo di grazia a bilanci già notevolmente compromessi, solo l’offerta è cresciuta a dismisura. Oggi sono considerati degli esuberi attaccanti come Higuaìn e Suarez, fino a tre anni fa valutati tra i 90 e i 150 milioni; oggi un centrocampista come Allan, per il quale a dicembre 2018 il Psg avrebbe speso 80 milioni, riceve una sola chiamata dall’Everton di Ancelotti che non può spingersi oltre i 25 (22 più tre); oggi sono dichiarati fuori progetto Khedira, Cavani, James Rodriguez, Bale, Douglas Costa, Rakitic, Vidal, Bernardeschi, Under, Kluivert e molti altri.

Vi invito a dare un’occhiata ai titoli di mercato (tutti in memoria) delle ultime estati per meglio comprendere i caratteri della nuova recessione: la parola d’ordine è “prima vendiamo e poi compriamo”, il guaio è che nessuno, tranne i due club-Stato e il redivivo Abramovich, che comunque non fa testo, ha notevoli capacità di spesa. Stiamo per passare dai playoff di agosto ai “playoutlet” di settembre. Un tempo il calciomercato aveva il suo teatro, prima il Gallia, poi l’Hilton, con le corti di principi, miserabili, miliardari e bollettari, geni e cialtroni, talent scout e puttanieri; e i calciatori erano quasi sempre veri, umani ancorché divini. Si respiravano emozioni. Il mercato globale è invece virale, digitale, astrale, virtuale, illusorio. C’erano una volta donne e champagne. Oggi solo pippe e gazzosa.


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