Cabrini: "Paolo Rossi era mio fratello"

«A fine luglio ho perso Ettore, tre anni più grande di me, e adesso anche Paolo» racconta l’ex difensore, che si sofferma sul suo sorriso
Cabrini: "Paolo Rossi era mio fratello"
Ivan Zazzaroni
4 min

Il Migliore mi rimanda immediatamente a Cabrini, la prima persona che ieri mattina ho voluto sentire. Rossi & Cabrini, Pablito e il Cabro, campioni e uomini e figure inscindibili. Così simili, poi. Gli ho detto, semplicemente: Antonio, il ricordo deve essere tuo, scrivilo per noi e per tutti. E lui non si è sottratto. «Nove anni in Nazionale, stessa camera, sempre insieme, la Rossi-Cabrini…». Una lunga pausa, prima di riprendere: «Ho perso il secondo fratello, quattro mesi e mezzo dopo Ettore, che aveva tre anni più di me. Ettore è morto a fine luglio, infarto... Ci somigliavamo, io e Paolo, lui aveva però una capacità di sdrammatizzazione che non ho ritrovato in nessun altro, non so se per il desiderio di costruirsi una vita a prova di angoscia e di dolore. Era buono come il pane, ti strappava il sorriso soprattutto nei momenti difficili. Nel periodo in cui poteva soltanto allenarsi con noi alla Juventus, per via della squalifica, non portò mai nello spogliatoio delle negatività, pensieri tristi, malinconia, una rabbia comprensibilissima. Era discreto, riservato. Perfino della malattia nessuno dei ragazzi sapeva nulla. Sospettavamo che le cose non andassero affatto bene perché da oltre un mese non frequentava più la nostra chat. Per pudore, a Federica non ho chiesto cosa avesse, forse non volevo nemmeno conoscerla fino in fondo, la verità. Quando stamattina ho saputo che Paolo non c’era più, che non avrei più potuto sentirlo, né incontrarlo, ho provato un terribile senso di vuoto. Si è portato via il sorriso, la leggerezza».

Il ricordo si fa spesso dolce. «Finire nella stessa camera fu quasi naturale, nel ’78, in Argentina, io e lui le sorprese di Bearzot, occupammo gli ultimi due posti liberi dei ventidue. Stessa età, Paolo di un anno più vecchio, due ragazzi, anche intimiditi. La sintonia fu immediata, naturale. Due bilance».

La Spagna, il Mondiale, il pettegolezzo, le polemiche, pesantissime, il silenzio stampa, le divisioni giornalistiche, le imprese sorprendenti e contrastate, il titolo più bello di sempre. «La notte della vittoria la vivemmo in un corridoio di fronte alle nostre camere. Non ci rendevamo conto di quello che avevamo fatto. Che cazzo abbiamo combinato? ci ripetevamo. Non sapevamo cosa stesse accadendo in Italia. Solo quando atterrammo a Ciampino con l’aereo presidenziale, con noi c’era Pertini, capimmo che l’avevamo fatta davvero grossa. Quarantamila persone ad attenderci, Paolo l’eroe nazionale, aveva segnato sei gol, lui il capocannoniere... Adesso mi rendo conto che parlarne mi fa bene. Non l’ho mai visto incupito, Paolo era fantastico. Mi tornano in mente le nottate spagnole che non finivano mai. A quei tempi il coprifuoco scattava alle dieci e mezza. Tutti in camera. E mentre stavamo guardando la televisione, chi bussava alla porta ed entrava? Il Coyote. Tardelli: Marco non dormiva mai, il Bea (Bearzot, nda) l’aveva ribattezzato così proprio perché il coyote non dorme di notte. Era quasi un rituale, la nostra camera era la fermata obbligatoria del suo pellegrinaggio: intorno a mezzanotte il Bea si affacciava sulla porta e come s’accorgeva che eravamo ancora svegli e che con noi c’era Marco cominciava a imprecare: “dovete dormire!, domani c’è l’allenamento! E tu, Marco, devi correre perché affrontiamo questo e quel giocatore". In quel preciso istante io e Paolo capivamo che non sarebbe finita lì, perché il Bea iniziava a descrivere le caratteristiche degli avversari spiegandoci come avremmo dovuto affrontarli. Io e Paolo, sfi niti, ci guardavamo sperando che il Bea e Marco se ne andassero e ci facessero finalmente dormire. Di solito non succedeva mai prima dell’una e mezza».

«Ma i ricordi non sono associati unicamente al calcio, a quella fase della nostra vita. Siamo stati legati per oltre quarant’anni, abbiamo condiviso le gioie e anche le sofferenze, ci siamo voluti bene e le nostre famiglie sono tuttora molto unite». Cabrini ha estratto dalla tavolozza dell’anima tinte e sfumature di rara profondità, la profondità che solo la semplicità e la spontaneità possono raggiungere, poi si è restituito alla realtà. A un dolore che prova a mascherare.


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