Superlega, i dodici club affondatori

Superlega, i dodici club affondatori© LaPresse
Ivan Zazzaroni
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La mia prima reazione è stata esortare Uefa e federazioni a escludere immediatamente dai campionati e dalle coppe i dodici club (af)fondatori. Le norme sono chiare: per partecipare alle competizioni nazionali e internazionali bisogna accettare - al momento dell’iscrizione, che avviene ogni anno - le regole delle istituzioni di riferimento. Quando i 12 club affondatori sostengono di non poter essere esclusi, sbagliano: sono loro che hanno preso la porta e se ne sono andati da casa, sbattendola.

Lo scorso 10 gennaio fu depositato il logo della Superlega, a conferma che i Dodici stavano lavorando da tempo al progetto. In seguito hanno incaricato Heidrick & Struggles di individuare una società in grado di aprire e seguire il sito dedicato. La comunicazione è stata poi affidata a professionisti del fondo Elliott.

Tutto apparecchiatissimo, insomma, prima di approdare alle firme vincolanti. Il punto di non ritorno. In sostanza hanno preso in giro il loro mondo. Juve, Inter e Milan, per restare alle nostre, si sono fatti gioco della Lega e delle società che ne fanno parte.

Allora il problema non era Dal Pino, che voleva portare i fondi, ma il fatto che l’ingresso degli investitori avrebbe impedito la creazione della Superlega. A proposito delle altre 17 squadre della serie A - il discorso ovviamente può essere esteso a Spagna e Inghilterra -, mi chiedo come possano accettare di competere a livello nazionale con avversarie i cui ricavi aumenteranno di 300-350 milioni l’anno, ben sapendo che queste ultime non punteranno a un posto in Champions, avendo già un supertorneo di proprietà.

La seconda reazione, meno di pancia, mi ha portato a individuare le responsabilità, enormi, di Fifa e Uefa: nella fase della crisi più disperante, a partire dallo scorso mese di maggio fino a ieri, non hanno fatto interventi economici sostanziali per aiutare i club in difficoltà.

I ricavi di Fifa e Uefa, lo ricordo, derivano in massima parte da coppe e tornei, i cui protagonisti sono i giocatori pagati dai club: se avessero versato, che so, due miliardi di “ristori”, come più volte sollecitato, sarebbero oggi inattaccabili. Invece la coda di paglia fa più debole la loro reazione.

Ha ragione Andrea Agnelli quando lamenta per i club la perdita di incassi di 6,5-8,5 miliardi in due stagioni, quando denuncia il calo di interesse e il cambiamento dei gusti dei tifosi, quando sostiene che troppe partite non sono competitive, quando avverte che l’interesse dei fondi stranieri è legato non alla solidarietà, ma ai ritorni degli investimenti, e da ultimo quando chiede al calcio di cambiare formula e geografia dei campionati.

Ma c’è una differenza sostanziale tra una Champions che diventa un campionato europeo, mantenendo una circolarità di squadre ammesse o escluse unicamente in base al merito sportivo nei rispettivi tornei, e una Superlega intesa come una monade, dove si accede unicamente sulla base del primato finanziario delle società. Nel primo caso si promuove lo spettacolo, tutelando il primato della componente sportiva. Nel secondo si difende unicamente il rischio di impresa, trasformando il calcio in una corporazione finanziaria. Sarebbe la morte di questo sport, per come l’abbiamo conosciuto da oltre un secolo.

Per quanto rilevante sia il peso finanziario dei club, deve essere garantito al Leicester come all’Atalanta il diritto di ribaltare i rapporti di forza e di concorrere a parità di condizioni con le più grandi. Perché la leggenda di Davide che batte Golia è l’alchemica formula di qualunque sport. È singolare che un calcio che si è andato sempre più “finanziarizzando” cada nella tentazione di azzerare il rischio d’impresa, tentazione tipica di quegli industriali abituati per cultura e formazione a rischiare con i soldi dello Stato.

Ma è la prova che i cartelli dei monopoli e lo statalismo sono la stessa cosa, e cioè sono nemici della libera concorrenza, la sola capace di promuovere lo sviluppo di un sistema. I 12 club hanno fatto male i calcoli: un sistema chiuso non protegge un’egemonia finanziaria, né copre gli errori di manager che hanno sbagliato investimenti e aperto voragini nei bilanci, male o mai controllati. Ci ripensino e accettino un dialogo con le istituzioni del calcio, per aiutarle a cambiare e a migliorarsi, non per pugnalarle alle spalle.


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